L’ITALIANO REGIONALE


L’ITALIANO REGIONALE

 

 

PREFAZIONE.. 2

PARTE PRIMA.. 5

L’ITALIANO: UN AGGREGATO DINAMICO.. 5

L’italiano “standard”: un tentativo di definizione. 26

Una classificazione degli italiani regionali 32

Italiano e dialetto. 34

Gli italiani di oggi: dialettofoni “inconsapevoli”?. 40

PARTE SECONDA. 46

L’ITALIANO NELLE REGIONI DELL’ITALIA CENTRO-MERIDIONALE.. 46

L’Abruzzo. 50

Il Lazio. 57

La Campania. 70

L’ Umbria. 79

La Toscana. 87

Le Marche. 97

La Puglia. 107

CONCLUSIONI 114

BIBLIOGRAFIA: 122


 

PREFAZIONE

 

La lingua che siamo abituati a sentire in televisione ed alla radio, mass-media di comunicazione in forma orale, viene spesso considerata, forse un po’ superficialmente, “l’italiano corretto” per definizione.

Ma questo “italiano” che viene preso poi dalla gente comune come modello unico di riferimento, lo è realmente? Si può veramente parlare di “corretta pronuncia della lingua italiana” quando si fa riferimento alla lingua parlata? Già nel tardo seicento c’erano studiosi, come Andrea Perrucci, nato a Palermo e vissuto a Napoli che incominciavano ad interrogarsi sulla reale esistenza di questa “pronuncia Italiana”. Come ci fa notare infatti Pietro Trifone, il Perrucci, nel trattato “Dell’arte rappresentativa premeditata ed all’improvviso” del 1699, dopo aver vagato a lungo per L’Italia, affermava “Che ogni Lingua non pecchi in qualche cosa nella pronuncia non vi cade dubbio alcuno, e che nella nostra Italia non vi sia chi perfettamente parli è cosa più chiara del sole istesso” (TRIFONE 1994: 312).

Più o meno oggi si è tutti concordi nel riconoscere che l’italiano che scriviamo è il fiorentino trecentesco, arrivato a noi attraverso alcuni mutamenti (non troppi in verità)[1].

Nei confronti della lingua parlata, invece, l’atteggiamento generale è molto diverso e molto meno unanime. Pur esistendo un italiano “standard” riconosciuto da molti linguisti, questo è in realtà una entità molto meno definita di quanto si potrebbe essere portati a credere in un primo momento, e i cui confini non sono poi così chiaramente delineati, ma assomigliano un po’ a  “a una coperta che ognuno tira dalla propria parte” (SORELLA 1997 : 36)

Cercherò in questa mia breve ricerca, che lungi dal voler essere una dissertazione esaustiva e completa sull’argomento, di andare ad analizzare nel dettaglio e  di illustrare quanto sono labili i confini di questa entità chiamata da molti studiosi “italiano standard”, e di analizzare le tante varietà fonetiche e linguistiche presenti nel nostro paese, la cui presenza ci può portare a parlare, più che di un “italiano standard”, dell’esistenza di tanti “italiani regionali”.

 

 


PARTE PRIMA

LITALIANO: UN AGGREGATO DINAMICO


 

Sorto da un'esperienza prevalentemente letteraria ed utilizzato, dopo la rigorosa codificazione cinquecentesca, soprattutto come mezzo della comunicazione colta ed ufficiale scritta, l'italiano è andato soggetto ad una travolgente trasformazione nei decenni che hanno seguito l'unità nazionale, divenendo in breve tempo lingua comune, impiegata (o impiegabile) per tutte le necessità comunicative, nell'oralità e nella scrittura.

In questo processo di diffusione, reso possibile in primo luogo dalla scolarizzazione, e poi anche dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, stampa) e da altri fattori (l'emigrazione intra-nazionale, l'urbanizzazione, la diffusione di una burocrazia statale), la lingua si è per così dire aperta e frantumata: aperta nel senso che si è resa disponibile anche per usi un tempo impensabili (come quelli della conversazione quotidiana, della comunicazione nell'ambito delle attività lavorative o di certe branche della tecnica, della scrittura a fini pratici); frantumata nel senso che la sua caratteristica monoliticità si è risolta in uno spolverìo di varietà regionali, sociali e situazionali, molto più adeguate in fondo alle variabili esigenze comunicative di un popolo che non è costituito solo di letterati ed intellettuali, rispetto alla lingua rigidamente normativa. Molto spesso è la situazione contestuale a condizionare fortemente la lingua utilizzata dall’interlocutore.  Un dialettologo settentrionale, Tullio Telmon, asseriva in un suo scritto che “sono certo la maggioranza, a Torino, quei torinesi che, laureati, professionisti, colti, agiati, alto-borghesi, sono forse quasi sempre irriconoscibili quando scrivono, ma sono certamente torinesi, torinesissimi quando parlano” (TELMON 1989: 105)

L'italiano non è un insieme monolitico di elementi linguistici saldati dal collante uniforme delle regole grammaticali: la lingua nazionale è, piuttosto, un dinamico aggregato di varietà le cui caratteristiche dipendono dalla cultura e dalla classe sociale dei parlanti e degli scriventi, dal contesto in cui essi si trovano ad operare ed a comunicare, dalle zone da cui essi provengono o nelle quali vivono e risiedono e dal mezzo che essi impiegano per scambiarsi informazioni.

In sostanza, si potrebbe dire che l'italiano è un'entità potenziale, che si manifesta in modi che variano a seconda delle caratteristiche possedute dai suoi utenti, di  quelle propriamente riconducibili alla situazione comunicativa e di quelle specificamente collegate al mezzo scelto per la comunicazione (lo scritto o il parlato). Per esempio: la lingua usata in condizioni normali da un docente universitario è diversa da quella comunemente utilizzata da un commerciante o da un elettrauto: il primo tende ad usare in genere forme più corrette, parole più complesse e ad eliminare - consciamente o inconsciamente - gran parte delle pronunce o delle intonazioni regionali. I secondi probabilmente tenderanno ad utilizzare un linguaggio con un lessico più ristretto, magari anche “condito” con qualche intonazione regionale se non addirittura con la presenza di termini dialettali. Allo stesso modo,  differente è l'italiano che si adopera chiacchierando tra amici da quello che si impiega in una riunione di alto livello tra bancari e da quello che si  utilizza durante il servizio di leva militare, scherzando con un commilitone: tutti tendono ad essere piuttosto coloriti ed ad ammettere alcune strutture informali, ma il secondo è certamente piuttosto sorvegliato, ed il terzo può essere anche un po’ sguaiato. E ancora,  un conto è scrivere una lettera, un altro comunicare rapidamente informazioni spicciole al telefono: nel primo caso si fa molta più attenzione alla correttezza dell'espressione, alla sua strutturazione, alla sua non-contraddittorietà, alla sua chiarezza.

La lingua, naturalmente, non muta solo a seconda dei parlanti, della situazione in cui essi si trovano, del mezzo che essi impiegano: muta anche nel tempo: l'italiano di Galileo non è quello di uno scienziato moderno; un sonetto di Dante è diverso da una poesia di Montale; una lettera di Della Casa[2] non è come quella di Mario Rossi.

Dopo questa premessa, cerchiamo a questo punto  di rendere tangibile  la variabilità dell'italiano tramite alcuni brani di esempio che presentano caratteristiche molto difformi perché sono prodotte da scriventi di cultura dissimile, di origine regionale differente, operanti in situazioni diverse e vissuti a grande distanza di tempo gli uni dagli altri:

 

 


1)[...]e poi il mio amico Romeo sentendo questo racconto gli fece una proposta e andò dal suo padrone della ragazza e gli disse: Se ci date una buona dote alla ragazza la sposo io e il bambino lo legittimo io, se viceversa tutto verrà svelato, e per il tentato suicidio diremo che si è sentita meno è svenuta e si è appoggiata alla ringhiera del ponte e non cera nessuno ad aiutarla e è precipitata nel fiume per disgrazia e se non gli date nulla sarà denunciato il vostro figlio per violenza carnale senza il consenso della giovane donna.

 

MONTALDI 1961 - Danilo Montaldi, autobiografie della leggera, Einaudi, Torino, 1961

 

 


2)Dalla metà degli anni novanta politiche monetarie nazionali espansive hanno concorso in misura determinante allo sviluppo della liquidità internazionale. Le attività finanziarie assimilabili alla moneta, in larga misura passività bancarie, hanno registrato una crescita più rapida di quella del prodotto. Tra la fine del 1994 e la fine del 1999, nelle maggiori economie la consistenza degli aggregati monetari più ampi è salita dal 68 al 71 per cento del prodotto; sono aumentate ancor più rapidamente, dall'88 al 95 per cento, le attività liquide che includono anche i conti interbancari e i depositi cross border detenuti da famiglie e imprese.

 

Antonio Fazio (Governatore della Banca d'Italia), intervento dal Convegno “Sistemi bancari e finanziari internazionali: evoluzione e stabilità”, Roma, Palazzo Koch, 09-03-2001

 

 


3) Buon giorno, mastr'Antonio, - disse Geppetto. - Che cosa fate costì per terra?

- Insegno l'abbaco alle formicole.

- Buon pro vi faccia!

- Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?

- Le gambe. Sappiate, mastr'Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore.

- Eccomi qui, pronto a servirvi, - replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi.

- Stamani m'è piovuta nel cervello un'idea.

- Sentiamola.

 

Carlo Collodi (Carlo Lorenzini), Pinocchio

 

 


4) Molto Ill.re ed Ecc.mo Sig.r e P.ron Col.mo

Io penso di partire di Roma intorno à 20 del corrente, ed andarò diritto alla volta di Pisa, chè così tengo ordine da parte del Ser.mo Gran Duca, e di già ho ottenuta licenza da questi Padroni. Farò le Feste di Pasca, piacendo a Dio, in Pisa, e poi verrò a Firenze a riverire V. S. Ecc.ma e mi trattenerò in Firenze cinque o sei giorni al più, per passare a Venezia al nostro Capitolo generale; e poi andarò a Brescia a vedere le ultime miserie di casa mia, e nel ritorno spero fermarmi in Firenze qualche giorno. Intanto servirò V. S. nel particolare delle corde, che mi comanda.

 

Benedetto Castelli, Lettera a Galileo Galilei del 2 marzo 1641

 

 


5) Suole à faticosi navicanti esser caro, quando la notte, da oscuro e tempestoso nembo assaliti e sospinti, né stella scorgono, né cosa alcuna appar loro che regga la lor via, col segno della indiana pietra ritrovare la tramontana, in guisa che, quale vento soffi e percuota conoscendo, non sia lor tolto il potere e vela e governo là, dove essi di giugnere procacciano o almeno dove più la loro salute veggono, dirizzare; e piace a quelli che per contrada non usata caminano, qualora essi, a parte venuti dove molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da mettersi non scorgendo, stanno in sul piè dubitosi e sospesi, incontrare chi loro la diritta insegni, sì che essi possano all'albergo senza errore, o forse prima che la notte gli sopragiunga, pervenire.

 

 

Pietro Bembo, Gli Asolani

 

 


6) Immagina una conversazione che si protrae per un periodo di ore e di giorni, come se le persone si lasciassero messaggi e risposte su una bacheca. Oppure immagina l'equivalente elettronico di un "talk-show" radiofonico al quale tutti possano partecipare inserendo il loro gettone e nel quale nessuno sia mai in attesa.

A differenza della posta elettronica, che di solito è "uno-a-uno," Usenet è "molti-a-molti." Usenet è quel punto di incontro internazionale in cui ci si ritrova per incontrare i propri amici, si discute degli avvenimenti del giorno, ci si tiene al passo con le novità sui computer o si parla di qualsiasi cosa venga in mente.

 

 

EFF, Guida a Internet della Electronic Frontier Foundation

 

 


7) [Montalbano] Dei morti se ne fotteva altamente, poteva dormirci 'nzemmula, fingere di spartirci il pane o di giocarci a tressette e briscola, non gli facevano nessuna impressione, ma quelli che stavano per morire invece gli provocavano la sudarella, le mani principiavano a tremargli, si sentiva agghiacciare tutto, un pirtuso gli si scavava dintra lo stomaco.

Riattaccò e esplose in un nitrito, altissimo, di gioia. Subito, nella cucina, si sentì un rumore di vetri infranti: per lo spavento, ad Adelina doveva essere caduto qualcosa di mano. Pigliò la rincorsa, satò dalla veranda sulla rena, fece un primo cazzicatummolo, poi una ruota, un secondo capitombolo, una seconda ruota. Il terzo cazzicatummolo non gli arriniscì e crollò senza sciato sulla sabbia. Adelina si precipitò verso di lui dalla veranda facendo voci...

 

 

Andrea Cammilleri, Il cane di terracotta, Palermo, Sellerio, 1996: 278.


8) "Este, noi siamo arrabbiati con la Mantiero, eh?"

La Este mi disse: "Taci, sprotòne, cosa vuoi sapere tu?"

Mi resi conto che ero rimasto io solo a stare arrabbiato con la Mantiero: le grande avevano tradito la loro stessa causa con una frivolezza quasi incredibile. E non fu nemmeno l'ultima che mi fecero le grande. Scendevamo verso la piazza io la Flora e la Este: davanti a noi sul marciapiede uscì la signora Ramina, rossa di capelli, snella e presuntuosa. Mie cugine spettegolavano criticando la figuretta che ci precedeva ancheggiando. "La tra 'l culo", bisbigliavano.

Io camminavo in mezzo e volevo partecipare anch'io alla conversazione, dare un contributo. Ci pensai su e dissi: "La trà la fritola".

 

 

Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, Milano, Mondadori, 1986: 20

 

 


Prescindendo dalle ovvie differenze di contenuto e di genere, un confronto tra i testi delle coppie 3-4, 5-6 e 7-8 mostra che:

·        3 e 4 presentano, tra le altre, ovvie differenze nella formalità dell'espressione; bassa nel primo caso, decisamente più alta nel secondo;

·        5 e 6 si distinguono per stile ed argomenti, ma anche, in maniera evidente, per molte caratteristiche propriamente grafofonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali, tutte ricollegabili alla dicotomia antico/moderno: il primo testo, in particolare, usa forme e strutture percepibilmente "invecchiate" (navicanti per “naviganti”; giugnere per 'giungere”, à per “ai”, in guisa che, solo per citarne alcune), mentre il secondo appare decisamente più al passo con i tempi (vi si leggono termini come posta elettronica e Usenet);

·        7 e 8 si differenziano dagli altri, oltre che per stile e struttura, soprattutto per la presenza, nel loro interno, di elementi dialettali: meridionali (siciliani) nel primo ('nzemmula, pirtuso, satò, cazzicatummolo, tra i più evidenti), settentrionali (veneti) nel secondo (ad esempio: sprotone, fritola).

·        Il brano 1, per cui non è stato istituito un termine diretto di paragone, mostra invece una grande quantità di quelli che si considerano normalmente "errori" (se viceversa; cera in luogo di  “c'era” ); essi sono del tutto assenti dal brano 2, che presenta, inoltre, una cospicua presenza di termini specialistici, relativi al mondo della finanza (liquidità internazionale; passività bancarie; attività liquide).

Pur se tanto diversi tra di loro, i brani presentati ed analizzati sono tutti scritti in italiano: non nello stesso tipo di italiano evidentemente; non sempre nella lingua che - appresa nei suoi aspetti formali sui banchi di scuola - abbiamo forse finito per considerare l'unica, nelle sue pretese caratteristiche di uniformità, stabilità, immutabilità, perfetta grammaticalità.

Evidentemente  si tratta di un errore di prospettiva. Non c'è dubbio che l'italiano appreso sui banchi di scuola - quello che potremmo considerare, in prima approssimazione, la lingua standard - sia, appunto, italiano. È altrettanto vero però che esistano numerose altre varietà di lingua che si possono a pieno diritto fregiare dello stesso nome: hanno - questo sì - una diffusione ed un ambito d'uso particolari, ma ciò non è meno vero per l'italiano standard, che è forse più un concetto  che una realtà incarnata.

L'insegnamento scolastico tradizionale può indurre, negli studenti, l'idea che esista un solo italiano, quello che si realizza per lo più nella tradizione letteraria e negli scritti elevati e formali, e che è stato assoggettato a regolamentazione grammaticale.

Tale convincimento, quando sia effettivamente sorto, è in buona sostanza falso, perché non tiene conto del fatto che nella realtà comunicativa di tutti i giorni, a tutti i livelli dell' espressione, in ciascuna delle numerosissime comunità di discorso e di pensiero esistenti, all'interno degli svariatissimi gruppi sociali in cui si articola la comunità nazionale dei parlanti e degli scriventi, l'italiano assume aspetti molto diversi, si realizza in varietà differenti le une dalle altre.

Inoltre è importante sottolineare come non è detto che la lingua italiana debba essere necessariamente identificata con la sua forma scritta. Tutto sommato la lingua è un mezzo comunicativo utilizzato per comunicare con altre persone in forma prevalentemente orale. “La lingua è, prima di tutto, l’attività del parlare, e solo di riflesso quella dello scrivere” (TELMON 1989 p.95). Appare evidente, alla luce di questa considerazione, come l’italiano “standard” possa presentare notevoli differenze in funzione del modello di riferimento scelto, la lingua scritta o la lingua parlata. Appare chiaro infatti che mentre da una parte i canoni ed i costrutti grammaticali della lingua scritta sono abbastanza ben delineati, dall’altra “se la realtà di una lingua è il parlato allora bisogna dire che la vera realtà dell’italiano sono gli italiani regionali e locali […] particolarmente nella prosodia e fonologia, non si sfugge alle marche regionali e locali” (MENGALDO, 1994 p.93). [3]

Sostenere, come stiamo facendo, che la lingua italiana non si identifica “tout court” con la varietà impiegata nei testi letterari o nelle scritture formali e disciplinata dalle grammatiche non significa, però, negare l'importanza che quest'ultima ha per il parlante e lo scrivente: ciò costituirebbe un grave errore, non meno grave di quello che ne vorrebbe fare l'unica forma di lingua accettabile.

La conoscenza dell'"italiano di alto bordo” (mi si perdoni la definizione forse un po’ sarcastica) ha in effetti un'importanza capitale per lo scrivente professionale. E ciò non tanto perché egli debba necessariamente servirsene in ogni suo testo (ciò costituirebbe un errore, dal punto di vista comunicativo, se è vero - come è vero - che un testo funzionale è in primo luogo un discorso funzionalizzato ed adeguato alle istanze dei suoi destinatari e della situazione comunicativa), ma piuttosto perché se ne serva come un punto di riferimento per la sua scrittura, quale punto fermo rispetto al quale valutare l'opportunità e l'utilità comunicativa di adottare forme e costrutti particolari, non-standard o non del tutto standard, appunto.

L'italiano insomma,  è una realtà molteplice, si manifesta in forme svariate, senza per questo divenire qualcosa di differente da se stesso: ad esempio vi sono varietà dialettalmente neutre o varietà diatopiche, e cioè più vicine ai dialetti[4].

Nella caratterizzazione complessiva di una lingua, naturalmente, si deve tenere conto anche delle sue caratteristiche diacroniche, ossia da quelle che dipendono dal momento (e cioè dall'altezza cronologica) in cui essa si materializza (l'italiano del Cinquecento è diverso da quello del ventesimo secolo).

Nella mia analisi prenderò principalmente in considerazioni le manifestazioni contemporanee dell'italiano (producendo, cioè, quella che i linguisti chiamano un'analisi sincronica).

Nei paragrafi che seguono prenderò in considerazione, in un'ottica eminentemente sincronica, le varietà principali della lingua nazionale soffermandomi particolarmente su quella spiccatamente regionale sub-standard (e cioè su quella varietà molto spesso “condannata” dalla media dei parlanti e degli scriventi, oltre che dai grammatici, spesso definita con accezione dispregiativa come  “italiano popolare”).


Litaliano standard: un tentativo di definizione.

 

 

Iniziamo la nostra caratterizzazione degli italiani regionali da una definizione minimale di cosa di cosa siano queste varietà regionali della lingua nazionale da un lato, e di cosa sia l’italiano “standard” dall’altro. Volendo dare una definizione molto minimale e superficiale, si potrebbe dire che sono italiani regionali tutte le varietà geografiche della lingua nazionale.

In sostanza, definiamo italiani regionali le forme di lingua usate in specifiche aree della Penisola, forme che risentono - a livello fonetico, sintattico e lessicale - dell'influsso originario dei dialetti locali, i quali fungono da vere e proprie lingue di sostrato.

Le varietà regionali dell'italiano possono considerarsi - per usare le parole di De Mauro 1963: 142 - "come una nuova risultante nata dal comporsi della tradizione linguistica italiana con le molteplici tradizioni linguistiche dialettali" e si sono originate “a mano a mano che gli ambienti abituati al monolinguismo dialettale [...] si sforzavano di usare la lingua comune. Nell'adottar questa, i dialettofoni, in misura variabile da luogo a luogo, dall'uno all'altro strato sociale e dall'uno all'altro tipo di rapporti interindividuali, vi hanno inserito elementi lessicali del loro dialetto d'origine e l'hanno piegata alle consuetudini fonologiche e sintattiche dialettali”.

È evidente che i tratti linguistici di origine dialettale che perdurano nelle varietà regionali dell'italiano non sono identici tra di loro del punto di vista diastratico e diafasico: alcuni sono ubiquitari e, anche per questo, debolmente o per nulla disapprovati dagli altri utenti della lingua; altri sono più "forti", più marcati, e perciò più pesantemente sanzionati, e vengono usati solo in condizioni di spiccata informalità o da persone poco istruite.

È interessante sottolineare, a questo proposito, che in passato su questo argomento ( il sanzionare in modo più o meno pesante determinate influenze dialettofone nella lingua parlata) vi sono stati confronti e ricerche a volte anche dai risultati poco piacevoli, con enunciazioni di analisi che contenevano in se pericolosi elementi di razzismo linguistico (e forse non solo linguistico). Mi riferisco in particolare alla ricerca di Nora Galli De’ Paratesi del 1977[5]. A seguito di una indagine effettuata dalla linguista su cittadini delle città di Roma, Firenze e Milano per verificare quale tipo di italiano si parlasse nei tre centri e per verificare il giudizio dei cittadini dei rispettivi centri riguardo i vari accenti (milanese, fiorentino, romano, RAI), emergevano nella ricerca della De’ Paratesi elementi di intolleranza da parte soprattutto degli abitanti dei centri settentrionali nei confronti dei meridionali. L’autrice, infatti, nel trarre le conclusioni della sua indagine, notava che “la qualità degli stereotipi sociali associati con gli accenti meridionali è pienamente evidente ed esplicita nella sua versione negativa, specialmente nei giudizi sociali: “volgare”, “inferiore”, “ignorante”.”. La stessa studiosa poi  arrivava alla fine ad osservare, riguardo ai milanesi, che “non è sorprendente riscontrare che Milano è il centro più standardizzato e al tempo stesso il più ostile ad immigrati delle zone sottosviluppate. Per quanto sia un aspetto negativo del quadro sociolinguistico dell’Italia contemporanea, è estremamente coerente ed è la conseguenza naturale ed inevitabile della forma presa dallo sviluppo del paese”, apostrofando il razzismo linguistico come un fatto “naturale ed inevitabile”, trattandosi della normale conseguenza di uno sviluppo non bilanciato tra nord e sud del paese (cfr. GALLI DE’ PARATESI 1977 pp. 160-161  e anche SORELLA 2001 pp. 27-28).

Questo solo per far capire come il dibattito sulla questione della pronuncia dell’italiano sia vivo, animato e composto da tante sfaccettature e analizzabile sotto diversi punti di vista, a volte forse anche poco piacevoli.

Ma quale è (o quale dovrebbe essere), dunque, la pronuncia standard della lingua nazionale?

Possiamo dire che sostanzialmente non esiste accordo tra gli studiosi, che sostengono, in genere, uno dei seguenti tre modelli:

·       quello tradizionale, accolto dalla maggior parte dei manuali, che prescrive l'adozione di una pronuncia di base fiorentina emendata dei fenomeni dialettali più vistosi, come la "gorgia";

·       quello, altrettanto fortunato, che si è affermato soprattutto durante il ventennio fascista e che tenta una mediazione tra la pronuncia romana e quella toscana soprattutto per quanto concerne la resa delle vocali semiaperte e semichiuse, che hanno distribuzione diversa nelle due varietà;

·       quello, più recente, che prevede l'accoglimento degli usi propri dell'italiano settentrionale - una varietà il cui prestigio sembra essere in crescita negli ultimi decenni - per quanto riguarda la distribuzione delle vocali semiaperte e semichiuse (la cui natura dipende, in quelle varietà, dal contesto sillabico, ed è quindi del tutto prevedibile) e per quanto riguarda la distribuzione sia delle fricative alveolari sorda e sonora che delle affricate dentali sorda e sonora.

Altri studiosi inoltre sostengono che per identificare l’italiano “standard” basterebbe fare riferimento ad una sorta di italiano "neutro", ossia "purgato" dei più vistosi tratti regionali, in particolare di quelli sottoposti a sanzione sociale, perché la loro presenza si risolverebbe in uno svantaggio sociale e comunicativo. In quest'ottica, insomma, il parlante modello sarebbe quello del quale si riuscisse difficilmente ad individuare, se non a seguito di un'accurata analisi, la regione di provenienza.


Una classificazione degli italiani regionali

 

Non tutti gli studiosi riconoscono l'esistenza dello stesso numero di varietà regionali, e - d'altra parte - le classificazioni che essi propongono variano molto per finalità e livello di dettaglio. Vi sono, così, linguisti che riconoscono un numero ristretto di manifestazioni regionali dell'italiano, e linguisti che ne distinguono varie decine (De Mauro 1963, ad esempio, individua quattro varietà principali: quella settentrionale, quella toscana, quella romana e quella meridionale; Lepschy 1977, invece, ne distingue oltre venti: grosso modo una per ciascuna regione amministrativa).

Non si può dire, naturalmente, in questi casi, che un modello sia più corretto degli altri: la differenza fondamentale che intercorre tra essi, infatti, è nel livello di dettaglio dell'analisi linguistica sottesa. In astratto, d'altronde, ogni città, ogni paese, forse persino ogni quartiere è portatore di una varietà diversa dell'italiano: lo aveva già rilevato Dante nel suo celebre trattato linguistico, il De Vulgari Eloquentia, scritto all'inizio del Trecento, nel quale osserva che la parlata del quartiere bolognese di Strada Maggiore è differente da quella del non lontano Borgo san Felice . Stando così le cose, se si vuole riuscire a produrre una qualsivoglia rappresentazione minimamente "maneggevole" del repertorio delle varietà diatopiche dell'italiano, occorre porsi dei limiti; è necessario astrarre un po’ dal reale - fatto solo di casi singoli - ed applicare all'altrimenti irriducibile variabilità fenomenica una griglia cognitiva che permetta di ricondurla a categorie più generali. In quest'ottica, una rappresentazione di compromesso potrebbe contemplare le tre varietà geografiche principali dell'italiano, che sono:

·       La varietà settentrionale

·       La varietà centrale

·       La varietà meridionale

Discorso a se meriterebbero almeno la varietà meridionale estrema e la varietà sarda, ma non è mia intenzione (o ambizione) fornire in questo lavoro un’analisi completamente esaustiva di tutte le varietà regionali dell’italiano, vista la vastità e la complessità dell’argomento.


Italiano e dialetto

 

Tra lingua e dialetto non vi è una differenza di tipo linguistico, ma di status. O per lo meno così è all'inizio. La lingua ha un carattere di ufficialità che invece viene negato al dialetto; e questo a volte può nascere da cause puramente storiche e sociali; infatti una medesima forma di espressione può essere, a seconda delle epoche e delle zone, classificata come lingua o come dialetto.

Emblematico il caso dell'occitano: dal XII secolo agli inizi del XIV fu una delle principali lingue di cultura d'Europa, tanto da essere correntemente usato anche al di fuori della sua zona d'origine, dalla Catalogna al nord Italia. Improvvisamente, per vari motivi storici, fu relegato a forma di espressione locale, popolare. Nell'800 si tentò di farlo rivivere come lingua letteraria, tentativo che dura tuttora, ma che non è riuscito a frenare la sua decadenza.

Questa differenza di status tra italiano e dialetto,  ha alla lunga  un importante riflesso di tipo linguistico. Le lingue ufficiali infatti, proprio in quanto tali, assumono una ricchezza lessicale e una formalizzazione grammaticale che invece i dialetti gradatamente perdono. Forse all'inizio il toscano non aveva particolari caratteristiche che lo rendessero preferibile al siciliano, all'umbro, al lombardo, al veneto (solo per indicare parlate che, intorno al 1250-1300, ebbero importanti manifestazioni letterarie); ma ormai la trasformazione è irreversibile. Al giorno d’oggi risulterebbe molto difficile, se non impossibile, tradurre la Divina Commedia o la Critica della ragion pratica in Piemontese o in Siciliano.

Se un tempo lingua nazionale e parlata locale (o dialettale) esistevano pressoché staticamente nei termini di due sistemi distinti, ciascuno dei quali poteva costituire oggetto separato d'indagine, oggi l'accesso generalizzato all'istruzione obbligatoria, la diffusione capillare dei media hanno stravolto questo stato di cose: dalla netta “compartimentazione” si è passati in ogni area linguistica, dovunque si eserciti la pressione di una lingua di cultura, ad una condizione di sistematico contatto per effetto del quale le due varietà interagiscono compenetrandosi vicendevolmente.

In tutte le aree linguistiche italiane l'effetto più appariscente dell'interferenza fra i due sistemi in contatto è certamente il cedimento progressivo, in taluni casi un vero e proprio sfaldamento, della lingua locale che, sotto l'incalzare della varietà di maggior prestigio, non solo conosce una sensibile regressione nell'uso, ma vede sempre più sbiadire la sua originale fisionomia, alterata in misura crescente da forme e costrutti della lingua standard.

Il processo di osmosi in atto fra lingua nazionale e lingua locale genera anche l'opposto fenomeno del costituirsi di varietà di italiano, marcatamente influenzate dal codice dialettale sottostante, per le quali è invalsa la definizione di “italiano regionale”. Secondo la definizione di Ines Loi Corvetto per italiano regionale si deve intendere "una varietà di italiano parlata in una determinata area geografica che presenta caratteristiche fonetiche, morfosintattiche e lessicali tali da permettere la sua sensibile differenziazione rispetto all'italiano parlato in un'altra area geografica" (CORVETTO 1983 p. 22). Fluido, non rigidamente strutturato né agevolmente riducibile entro schemi precisi, presente tanto nel parlato quanto nello scritto, l'italiano regionale rappresenta l'anello di congiunzione fra varietà locale e lingua comune, il passaggio obbligato del dialettofono che si sforza di padroneggiare lo strumento linguistico nazionale. La sua larga diffusione, in definitiva, concorre a tener viva, malgrado il declino dei dialetti, la variazione collegata con le diversità areali concordemente additata come una delle peculiarità dell'architettura della lingua italiana.

In generale, i modelli di rappresentazione del repertorio linguistico italiano proposti a partire dagli anni '70 del secolo precedente mostrano, ad un estremo del repertorio, l'italiano letterario, scritto, colto e grammaticale: quello che viene comunemente (e forse a volte impropriamente) identificato come la lingua standard (standard dal punto di vista della sintassi e della grammatica, ma forse non così standardizzato nella pronuncia, come vedremo in seguito) ed all'altro un dialetto locale, parlato in aree ristrette e caratterizzato di solito da una particolare conservatività, da una speciale arcaicità.

Spetta a Giovan Battista Pellegrini il merito di aver attirato l'interesse sulla nozione di “italiano regionale”, una nuova entità linguistica da lui così battezzata in un lavoro del 1960[6]. L'italiano regionale, nell'analisi di Pellegrini, costituisce una forma espressiva mediana collocata all'intersezione "tra i due poli opposti della lingua letteraria e del dialetto schietto", dotata di una propria autonomia, che nasce dalla compenetrazione tra spinte linguistiche locali e omologazione nazionale.

In un intervento di poco successivo[7] lo stesso studioso avrebbe meglio delineato la fisionomia di questa varietà identificandola in quella particolare "coloritura" che l'italiano assume nelle singole regioni per effetto del sottofondo dialettale che di volta in volta vi agisce. In ciascuna area l'italiano regionale va a costituire una delle quattro polarità espressive che, nell'impostazione di Pellegrini, concorrono a formare il repertorio verbale della comunità linguistica. Volendo, potremmo immaginare il nostro bagaglio linguistico come  un’entità costituita sostanzialmente da quattro “strati”, sovrapposti, e cioè (elencandoli dallo strato “basso” verso lo strato più alto):

 

-il dialetto locale;

-la koiné dialettale regionale;

-l'italiano regionale

-l'italiano letterario.

 

Come si vede, alla semplicistica e riduttiva contrapposizione fra “lingua” e “dialetto”, si sostituisce uno schema quadripartito che meglio interpreta la complessità degli odierni assetti sociolinguistici.


Gli italiani di oggi: dialettofoni inconsapevoli?

 

Volendo fare una estrema sintesi di quanto fin qui esposto, potremmo riassumere dicendo che ciò che emerge da questa analisi è che, a differenza di altre lingue nazionali, delle quali esiste una versione “standard” parlata da almeno un piccolo numero di persone, l'italiano appare privo, almeno per quanto riguarda il livello fonetico, di una base di parlanti la cui pronunzia sia neutra rispetto alle svariate coloriture regionali: il cosiddetto standard costituirebbe, secondo gli studiosi, un modello astratto e tendenziale. Al suo posto, e con gradi diversi di approssimazione, si trovano le varietà regionali, che sono le realizzazioni locali di una lingua-modello sovralocale, le quali, influenzate dal sostrato dialettale, ne assorbono e riproducono, in varia misura (ed a vari livelli) i tratti caratteristici.

In corrispondenza delle grandi partizioni dialettali italiane si formano tipi di italiano regionale differenziati che generalmente riflettono le diverse provenienze dei parlanti.

Uno degli aspetti che caratterizzano nella maniera più appariscente e più costante gli italiani regionali - ed anche uno dei più importanti ai fini della loro descrizione scientifica - è quello fonetico: molti degli studiosi che si sono dedicati, a vario titolo, all'analisi delle varietà diatopiche della lingua sono infatti riusciti a produrre ampie liste di peculiarità fonetiche degli italiani regionali.

La cosa veramente singolare è che andando a fare un’analisi di quanto accade alla nostra lingua ai giorni nostri, sembra che paradossalmente il diffondersi della lingua “standard” attraverso i mezzi di comunicazione di massa (radio e televisione, fondamentalmente), stia portando sempre di più ad una certa “demotivazione normativa” (TRIFONE 1992 p. 91). Ciò che accade, in sintesi, è che l’avvicinamento dei vari italiani regionali al “modello comune” diffuso attraverso i media, fa si che “pochissimi italiani hanno una chiara idea del modo in cui essi stessi parlano”  (SORELLA 2001 p. 47), visto che oramai quasi tutti ritengono di parlare un unico italiano. Questo fa si che non si venga a maturare quella consapevolezza del proprio status di “dialettofono”, cosa che permetterebbe di avvertire la spinta a migliorare la propria pronuncia e la propria conoscenza della lingua. In pratica, la maggioranza della popolazione italiana crede di parlare italiano, quando invece parla quasi sempre un italiano regionale piuttosto marcato, quando non addirittura dialetto. Afferma Antonio Sorella nel suo Manualetto di dizione, “conosco […] un numero ancora più grande di meridionali che sono convinti di dire cugino ed invece pronunciano cuggino, o di settentrionali che pensano di dire pazienza invece di pasiensa. La cosa sorprendente è che queste stesse persone riescono a percepire ed a valutare come “erronee” tali pronunce quando le ascoltano sulla bocca, per esempio, dei giornalisti del proprio TG Regionale” (SORELLA 2001 p.48).

A quanto pare dunque, senza rendercene conto, stiamo diventando sempre più un popolo di “dialettofoni inconsapevoli”. E l’inconsapevolezza del proprio status linguistico, può diventare un vero e proprio problema sociale.

Essendo inconsapevoli della propria situazione, le persone tendono a mantenere il loro status, in quanto convinti di essere già arrivati quasi all’apice della conoscenza linguistica. Non si prova insomma quel “sano senso di inferiorità linguistica” (mi si perdoni il termine un po’ ardito) che portava, nelle epoche passate, il dialettofono a studiare la lingua italiana onde migliorare la propria pronuncia e la propria conoscenza lessicale.

L’inconsapevolezza della propria dialettofonia può portare a conseguenze ben più piacevoli del sorriso dell’interlocutore settentrionale che sente dire cuggino dal suo interlocutore meridionale.

In questo contesto, infatti,  è facile che la propria cadenza possa divenire una specie di “marchio indelebile”, additato come indice di una inferiorità sociale o addirittura razziale.

D’altronde, se un italiano oggi sente in televisione pronunciare la stessa parola in modi diversi, di riflesso non è portato verso l’eliminazione dei propri tratti dialettofoni, ma piuttosto ad accettare il fenomeno della regionalità della pronuncia della lingua italiana come un qualcosa di ineluttabile, a cui non si sfugge, non provando alcun interesse a porvi rimedio. Perfino la televisione di stato, da quando ha rinunciato ad imporre una pronuncia “standard” ai propri speaker, sembra aver accettato di fatto l’inesistenza di un italiano parlato comune.

Il problema è che però, a quanto pare, le pronunce delle varie aree regionali italiane non sono tutte accettate allo stesso modo e con pari dignità, se è vero – come è vero - che “è evidente a chiunque che i giornalisti televisivi di origine meridionale possiedono tutti una pronuncia non chiaramente regionale, mentre è consentito ad altri giornalisti settentrionali di conservare tratti fonetici molto marcati” (SORELLA, 2001 p. 50).

È ovvio che il punto non è che sia auspicabile che in futuro la pronuncia meridionale raggiunga un proprio status di dignità, come già sembra oggi accadere per quanto riguarda l’italiano settentrionale. Il problema è che esiste il pericolo concreto che una pronuncia “regionale”  possa essere giudicata accettabile da parte di un milanese, mentre non sia giudicata accettabile da parte di un palermitano o di un napoletano, dando luogo ad un pericoloso “razzismo linguistico” che potrebbe sfociare in una diffusione della “cultura razzista” in alcune aree del nostro stato. Tutto sommato, il fenomeno della Lega Nord può essere additato in qualche modo come una rappresentazione, seppur parziale e riconducibile anche a ben altri motivi,  di alcune delle problematiche qui esposte. 

 

 

 


PARTE SECONDA.

LITALIANO NELLE REGIONI DELLITALIA CENTRO-MERIDIONALE


Passiamo ora ad esporre analiticamente quelle che sono le caratteristiche più rilevanti delle aree linguistiche oggetto di questa ricerca. Tale carrellata ovviamente non ha l’ardire di voler essere esaustiva sull’argomento. Sono state deliberatamente tralasciate alcune aree d’Italia, e ne sono state scelte altre. Questo perché una dissertazione veramente esaustiva, comprendente tutte le aree regionali d’Italia, sarebbe stata sicuramente un compito troppo ardito da espletare, e forse anche al di fuori di quella che può essere la portata di una tesi di laurea. Sono state quindi volutamente scelte esplicitamente solo le aree regionali “limitrofe” o comunque di un certo interesse per quella che è l’area geografica nella quale è collocata l’università di Chieti, limitandosi quindi principalmente alle regioni del centro-sud Italia.  Ho cercato, ove possibile, di non  soffermarmi troppo sulle aree di riconosciuto “prestigio linguistico” come il Lazio e la Toscana, ma di trattare con eguale importanza anche le aree geografiche “minori” e linguisticamente meno “prestigiose”, quelle molto spesso ignorate, ma nelle quali comunque possono essere trovati interessanti spunti di riflessioni per capire quella che è oggi la nostra lingua, e per farsi forse un’idea di dove essa stia andando.  È stata inoltre inclusa la regione Puglia in quanto sappiamo che in questa università di Chieti è presente un importante percentuale di studenti pugliesi, dovuta alla significativa affluenza di studenti che provengono dall’area meridionale che si affaccia sul mare adriatico, in particolare provenienti dalla provincia di Foggia e regioni limitrofe.

Questa ricerca quindi vuole cercare di raffigurare, in modo sommario, quelle che sono le caratteristiche più interessanti e singolari delle varie aree linguistiche di “attinenza” con l’area geografica nella quale si trova l’università di Chieti (l’Abruzzo), scegliendo quelle più vicine per collocazione geografica (il Molise, le Marche), quelle che sono aree di grande prestigio e di grande importanza storica per quello che riguarda la nostra lingua (Toscana, Lazio), quelle con le quali l’università intrattiene “relazioni culturali e scientifiche” vista la presenza di importanti università (Campania, Umbria oltre alle già citate Toscana e Lazio), quelle di maggiore rilevanza per quanto riguarda l’afflusso di studenti nelle città ove si trovano le sedi Universitarie che non rientravano nelle precedenti categorie (la Puglia), andando ad analizzare di volta in volta le peculiarità tipiche di una determinata area e le sue caratteristiche salienti nella fonetica e nella morfologia dell’italiano parlato nella regione. Il lettore avrà modo di accorgersi che  più che esistere un solo italiano, esistono “tanti italiani regionali”, ognuno con le sue caratteristiche, le sue peculiarità, la sua importanza.


LAbruzzo

 

Da un punto di vista strettamente geografico la determinazione esatta dell’area dei questa regione è estremamente problematica. Se da una parte è possibile stabilire con certezza il confine naturale dato dal mare Adriatico, dall’altra non si può parlare di un suo equivalente per quanto riguarda l’entroterra. I confini secolari fissati lungo tratti più o meno estesi del Tronto, del Trigno e del Fortore sono di natura squisitamente storica, ed anche il rilievo montano occidentale più che un vero e proprio confine sembra aver rappresentato in passato piuttosto una via di transito.[8]

Nell’ Abruzzo si distinguono fondamentalmente due tipi di dialetto, differenziati negli esiti fonetici e nelle strutture fonologiche: il dialetto Aquilano, che non è una varietà abruzzese ma romanza[9], e il dialetto abruzzese propriamente detto. La differenza fondamentale tra i due dialetti consiste nell’esito finale della vocale atona. Nell’Aquilano si possono riscontrare ancora le vocali originali così come ci sono arrivate dalla lingua latina, come ad esempio la desinenza –u nell’accusativo dei nomi maschili della seconda declinazione, distinta da –a dei nomi femminili della prima declinazione, da –e dei nomi maschili e femminili della terza declinazione e da –o degli avverbi, della prima persona singolare dell’indicativo presente e del gerundio. Nell’abruzzese, invece, la finale è sempre indistinta, qualunque sia quella originaria (GIAMMARCO 1979, 22-3).

Si tratta in entrambi i casi di dialetti appartenenti al gruppo centro-meridionale, come si evince ad esempio dal trattamento di b e v indebolite e sino al dileguo in posizione intervocalica (es. freve, febbre), o dalla presenza di metafonesi delle vocali toniche medie, generalmente chiuse, o anche dal sistema di dimostrativi a tre termini (questo, riferito a chi parla, quésso riferito a chi ascolta). Tuttavia, va fatta una distinzione per quanto riguarda i sottogruppi di appartenenza dei due dialetti. Il tipo  “aquilano“ rientra nel gruppo centrale diffuso grosso modo ad Est del Tevere e che include le Marche, l’Umbria orientale e nel Lazio la provincia di Rieti (la sabina). Caratteristiche di questo gruppo sono la chiusura metafonetica delle vocali toniche medie aperte (è ed ò in é ed ó sia da Ū che da Ī  originarie latine, come ad esempio bbèlla, bbèlle ma bbégliu bbégli), dalle medie chiuse, dalla distinzione alla finale tra –u ed –o originari latini. Per quanto riguarda il lessico, molti interessanti i tipi aquilani “quatrannu” (ragazzo) e “temé” (guarda!), riscontrabili in molti altri dialetti soprattutto dell’Appennino molisano e meridionale (il secondo anche in sabina)

Il tipo “abruzzese” invece appartiene al gruppo alto meridionale, ed è caratterizzato ad esempio dalla riduzione delle vocali fuori d’accento alla cosiddetta vocale “indistinta”, o ad esempio dalla palatalizzazione o velarizzazione di a che subisce anche metafonesi soltanto da Ī ma con esiti differenti a seconda delle subaree. (VIGNUZZI 1996, pp. 136-137).

Pur unitario nelle strutture di base, l’abruzzese fondamentalmente è composto da due grandi gruppi: il gruppo “della montagna” o occidentale (marso – pelino - alto sanguino - chietino occidentale) e il gruppo “della costa” o orientale (chetino orientale – pescarese – lancianese). La distinzione tra questi due gruppi è dovuta fondamentalmente alla presenza di alcuni fenomeni peculiari nell’uno o nell’altro gruppo di dialetti, come ad esempio il timbro delle vocali mediane, che è chiuso nell’area “della montagna” e aperto nell’area “della costa”. Nelle parlate adriatiche, inoltre, rispetto all’altro gruppo, sono assenti le voci neutrali. Inoltre la palatalizzazione di / á / è a timbro chiuso nell’area occidentale e a timbro aperto nell’area orientale. Esiste inoltre, nell’area delimitata da Ortona a Mare, Vasto e Agnone, una sorta di “area di saldatura” dei due grandi gruppi, caratterizzata da vistosi frangimenti vocalici e da una sorta di “contaminazione” delle due parlate.

Per quanto invece riguarda il gruppo adriatico, la situazione è molto meno omogenea dal punto di vista linguistico, pur presentando un quadro fonetico e morfologico più ristretto e meno vario. Quest’area infatti è molto ricca di zone linguistiche, che costituiscono veri e propri “sub-dialetti” o anche aree che potrebbero essere definite “dia-sistematiche”,  assai interessanti dal punto di vista storico e fonetico. Ad ogni modo più che di aree diasistematiche, forse converrebbe parlare di “aree di contatto”, ma chiuse, senza quasi che si riescano a scorgere elementi di “interscambio” linguistico tra aree adiacenti. (cfr. GIAMMARCO 1979: 24-7).

Alcuni dei fenomeni più caratteristici del dialetto abruzzese sono la vocale indistinta, il consonantismo, la sonorizzazione delle sorde dopo nasale. Una testimonianza del manifestarsi di queste caratteristiche ci arriva già dagli “esercizi di lingua di Checchina”, di cui possediamo “una trentina di quaderni con i compiti svolti negli anni intorno al 1876-78” (TRIFONE 1990 p. 497).

La fisionomia “regionale” della scrittura di Checchina emerge dall’analisi dei testi più ampi e complessi, come ad esempio i temi e le lettere. Appare in questi scritti “l’endemico problema della vocale indistinta” (TRIFONE 1990 p.498), che si affaccia in termini come addietre “addietro”, raccogliera “raccogliere”, recato ”recate”; per quanto riguarda il consonantismo appaiono forme intense tipiche quali debbolezza, sabbato, aggire, faggioli, piggione. Per quello che riguarda invece la sonorizzazione delle sorde dopo nasale troviamo contenda “contenta”, intando “intanto”, quando “quanto”.

Non è un caso forse che proprio intorno al 1876-1878 un conterraneo e coetaneo di Checchina, tale Gabriele D’Annunzio, frequentava il collegio Cicognini di Prato, obbedendo alle sollecitazioni del padre che “gli vietava la barbara terra d’Abruzzi finché non si fosse intoscanito incorruttibilmente” (cfr. TRIFONE 1990 p. 503). Ciò va tenuto ben presente nel caso di uno scrittore che se “forse più di ogni altro ha reso alla sua terra un tributo d’opera così ricco”, non è però “mai pervenuto alla scoperta della dialettalità Abruzzese” (GIAMMARCO 1963 p.272)

In generale possiamo concludere dicendo che l’abruzzese ripete, nella pronuncia, le peculiarità fonetiche che sono comuni alle varietà dell’italiano meridionale. Tuttavia, per dirla con le parole di Giammarco, “un orecchio più attento potrebbe distinguere non soltanto gli abruzzesi dai meridionali, ma pure l’abruzzese adriatico da quello occidentale o tirrenico” (GIAMMARCO 1960 p. 29 ).

Fortunatamente nell’Abruzzo pare esistere un forte interesse per la storia della cultura della regione sempre più diffuso e generalizzato, in particolar modo per il suo patrimonio tradizionale di cultura locale, non solo in campo antropologico ma anche e specificamente in quello linguistico-dialettologico.

Proprio in quest’ottica in passato è stato fondato a Pescara “l’Istituto di Studi Abruzzesi”, presieduto da una personalità di primo piano quale Ettore Paratore. L’istituto ha dato vita alla rivista “Abruzzo” che ha visto l’intenso impegno redazionale di Ernesto Giammarco, cui l’Abruzzo è debitore del primo grande vocabolario dialettale complessivo, il “Dizionario abruzzese e molisano”. Accanto ad “Abruzzo” inoltre è doveroso citare almeno un’altra testata, quella della “Rivista Abruzzese” di Lanciano, diretta da un antropologo militante come Emiliano Giancristofaro.


Il Lazio

 

Andando ad analizzare la situazione linguistica del Lazio, bisogna innanzitutto premettere che sicuramente il peso di una eredità importante come quella della civiltà romana da una parte, e la mancanza di una precisa e ben delineata identità geo-storica dall’altra (nel Lazio odierno rientrano parti di Toscana Meridionale, di Umbria, di Abruzzo, di Campania), hanno sicuramente condizionato in modo molto forte le vicende linguistiche della regione nel processo di italianizzazione dei dialetti laziali.

Nell’area laziale possiamo immediatamente riconoscere 3 grandi macro-aree linguistiche. Una di Nord Ovest (la Tuscia  viterbese), una gravitante intorno a Roma (che si prolunga a sud lungo la costa fino circa al Circeo) e una a est-sudest, identificabile con le aree geografiche della Sabina e della Ciociaria (VIGNUZZI 1981 p.63). Il principale discrimine interno è rappresentato da uno dei più importanti confini dialettali dell’intera penisola, la cosiddetta “Linea Roma-Ancona”, che correndo sinuosa e sfrangiata tra il fiume Tevere e le vie Flaminia e Salaria, divide un’area nord-occidentale, orientata prevalentemente in senso toscano-rustico, da una più vasta area sud-orientale appartenente propriamente a quella che viene identificata, dal punto di vista linguistico,  come area “mediana” (il raggruppamento dialettale comprendente in varia misura Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo).

A est e a sud della linea Roma-Ancona si hanno i tratti costitutivi del tipo dialettale mediano, e cioè (cfr. VIGNUZZI 1981 e 1988):

·       Metafonesi (“Sabina” o “Ciociara”) consistente nella chiusura di é, ó in i, u e di è, ò in è, ó per influsso di –Ī, -Ŭ finali: quisto “questo”, signuri “signori” etc.

·       Conservazione dell’alternanza latina tra –U ed –O: focu (da focum) ma quando da quando, omo da homo. Avvicinandosi però ai confini sud-orientali con l’Abruzzo e con la Campania vari centri presentano la vocale finale “indistinta” tipica del mezzogiorno.

·       Il cosiddetto “neutro” in –o che si oppone al maschile in –u, contraddistinguendo i nomi di materia e gli astratti in genere, come aggettivi e infiniti sostantivati: si ha così lo fèrro per indicare il metallo ma lu férru con riferimento ad un oggetto specifico, lo sicco la siccità ma lu siccu la ‘persona magrà

È da notare come rispetto a questi tre indicatori di “medianità”, appare innegabile l’originaria carica individualistica di Roma che in epoca antica contrappone alla chiusura metafonetica il dittongo pure metafonetico di tipo “napoletano” (piezzo “pezzo”, uocchio “occhio”). La mancanza di una rete di centri urbani grandi e medi attorno alla capitale non ha favorito il superamento di questo individualismo di partenza, ed infatti a tutt’oggi la parlata “romana” recita un ruolo di protagonista assoluta per quello che riguarda le parlate dell’intera area regionale laziale.

La presenza di molteplici articolazioni linguistiche sub-regionali ha fatto si che ad oggi ancora non sia emersa una ricostruzione volta ad identificare una specifica e omogenea varietà “laziale” dell’Italiano. Tuttavia un fattore di unificazione è costituito proprio dalla presenza prevaricante di Roma, che presenta, nonostante il suo isolamento da “cattedrale nel deserto”, numerosi varchi di “solidarietà linguistica” con il resto del Lazio e più in generale con tutta l’area mediana. Il fatto che vi sia stato in passato un qualche interscambio tra la lingua di Roma e quella delle zone circostanti è testimoniato ad esempio da alcuni tratti presenti nel substrato dialettale romano, come lo scempiamento di r intensa in guera, che Roma ha accolto dalle zone circostanti, o che comunque ha sviluppato in conseguenza anche della forte immigrazione.

L’influenza e l’importanza del polo romano, dunque, si fanno sentire ancora ai giorni nostri. Roma si trova decisamente all’avanguardia nel processo di formazione degli italiani regionali, e l’accentramento degli organi amministrativi e burocratici dello stato, delle agenzie giornalistiche, delle principali case cinematografiche, della radio, della televisione fanno si che la “città più toscanizzata d’italia” (TRIFONE 1996 p.109) diviene al tempo stesso un centro d’irradiazione della lingua nazionale. La vecchia soluzione “lingua toscana in bocca romana” proposta durante il ventennio fascista, l’ubicazione degli impianti cinematografici, televisivi e radiofonici hanno favorito la promozione nazionale di una pronuncia fiorentina deregionalizzata, vicina, anche se non identica, alla varietà usata in circostanze di massima formalità dai romani più colti. Un’idea, questa, di Italiano “a priori”, un’immagine linguistica di stampo letterario, che tutto sommato disarmava i campanilismi, inducendo se non all’adesione incondizionata almeno ad un “amichevole transazione” (cfr. GALLI DE’ PARATESI, 1984 p.150).

Il Lazio moderno ha quindi trovato indubbiamente una forte unità intorno alla capitale, pur conservando una serie di varietà linguistiche ereditate dalla storia: Frosinone, Viterbo, Rieti non sono più oramai gli avamposti della Campania, dell’Abruzzo, della Toscana. Tutti i loro legami sono con Roma, i loro abitanti cercano una parte della propria immagine in quella di Roma (PETROCCHI-SABATINI 1984 p.5). Significativa, a questo proposito, è la tendenza affermatasi nelle regioni dell’Agro Pontino, dove i coloni immigrati degli anni trenta, in prevalenza veneti e romagnoli, hanno via via perso la loro “origine dialettale” avvicinandosi sempre di più come pronuncia al romanesco, varietà di prestigio dell’area. Va comunque rilevato che in molte aree della regione è ancora abbastanza evidente lo squilibrio linguistico tra la metropoli italianizzata e la periferia regionale più conservativa. Grande influenza su questo aspetto ha avuto l’alto tasso di analfabetismo presente fino alla fine dell’ottocento nelle aree più periferiche. Il censimento del 1881 infatti evidenziava come a fronte di una percentuale di analfabeti del 33,40% nell’area metropolitana di Roma facessero eco percentuali variabili dal 68% di Viterbo, al 74% di Rieti, al 78% di Gaeta fino ad arrivare al 82,55% dell’area di Frosinone. Benché nel corso degli anni successivi l’alfabetizzazione nel Lazio abbia progredito più o meno di pari passo con quella delle altre regioni italiane, fino all’ultimo dopoguerra il monolinguismo dialettale rimane la condizione più diffusa in larghe zone della regione. In una inchiesta sociolinguistica compiuta ad Alatri (comune della provincia di Frosinone, abbastanza vicino al capoluogo ciociaro) da M.C. Figliozzi[10] all’inizio degli anni ’80, ancora 92 intervistati su 100 dichiaravano di aver avuto come lingua materna il dialetto, mentre 24 (una percentuale molto significativa) risultavano “dialettofoni totali”, concentrati tra le campagne del comune e tra gli analfabeti, a fronte di solo 8 “italofoni totali”, e di una maggioranza formata da 68 “bilingui”.

In una situazione del genere con alle spalle una eredità storica di questo tipo, Roma continua a svolgere ancora il suo “ruolo storico” di mediatrice di italianizzazione, tanto che vi sono stati episodi di autori ciociari che rilevavano con un certo sdegno la tendenza dei piccoli centri a “mutuare” il loro dialetto in espressioni e parlate tipiche del Romanesco, raffigurando questo fenomeno linguistico (con una punta di malcelato “conservativismo campanilistico”, vista la connotazione negativa data al fenomeno) come un abbandono del dialetto in favore di una trasformazione dello stesso verso un “italiano scorretto”. D’altronde anche a Rieti, già nell’ottocento, “non esisteva più un dialetto puro e sincero come quello usato dal Mattei nei suoi sonetti, ma un dialetto quasi ibrido, con una netta articolazione geosociale tra la città più italianeggiante e la campagna più conservativa” (CAMPANELLi 1896: IX).

Non è forse esagerato quindi parlare di una “koinè” laziale a tinta “romanesca”, con impronte locali più o meno forti, secondo la cultura dell’individuo e la sue relazioni con Roma. L’affermazione del modello romano, tuttavia, per quanto estesa, non è né uniforme ne generale. Basti pensare ad esempio alla tendenza a sonorizzare le consonanti occlusive sorde dopo nasale, come in  tando, tembo, anghe per “tanto, tempo, anche”, fenomeno praticamente assente nell’area metropolitana di Roma (dove anzi una simile pronuncia è stigmatizzata come uno stereotipo della parlata “burina”) ma rilevabile ancora oggi in vari centri di un’ampia fascia orientale e meridionale del Lazio, talvolta persino nell’uso formale di parlanti colti (un esempio per tutti, il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, originario di Alvito, paese della provincia di Frosinone situato a ridosso del confine tra Lazio e Abruzzo).

È interessante rilevare come il dialetto romano sia stato sottoposto dagli avvenimenti della storia ad una serie di “bombardamenti” dall’esterno che bene o male ne hanno condizionato lo sviluppo e la sua evoluzione. Fattore cruciale, da questo punto di vista, ha sicuramente ricoperto l’imponente flusso migratorio verso la città. Il contributo maggiore all’incremento della popolazione romana proviene dalle regioni centro-meridionali, con il Lazio in prima posizione. Comunque non è trascurabile l’apporto settentrionale, particolarmente notevole anche dal punto di vista quantitativo, durante la “piemontesizzazione” della neo-capitale. Sono gli anni  in cui si va diffondendo nella borghesia cittadina una sorta di “perbenismo linguistico” volto ad eliminare dalla parlata romana i tratti più evidenti della sua pronuncia dialettale, per arrivare ad un modello maggiornemente “deregionalizzato” ed assonante alla lingua settentrionale, con la tendenza del processo di italianizzazione a chiudersi nei confronti del “basso” parlato. Va sottolineato però che un effetto diametralmente opposto è quello sortito dal fenomeno della “piemontesizzazione” nel comportamento dell’aristocrazia, nelle cui ristrette cerchie si ricorre al romanesco quale contrassegno di classe, in funzione reazionaria ed antipiemontese.

Una serie di movimenti e di fenomeni complessi, quindi, molto spesso tendenti a direzioni diametralmente opposte tra loro, che mettono a dura prova la parlata romana “attaccata” da più fronti.

Ed in effetti non è difficile riscontrare nel dialetto romano segni di “cedimento”, principalmente dovuti alla forte corrente immigratoria centro-meridionale da un lato, ed alla assai debole presenza di pregiudizi etnici-regionalistici nella popolazione romana (DE MAURO 1963 p.150) dall’altro.  Sicuramente significativi in questo senso sono fenomeni come lo scempiamento di rr (guera “guerra”) o lo sviluppo di un fenomeno come il dileguo di l scempia negli articoli, nelle preposizioni articolate, nei pronomi personali e nei dimostrativi: a mojje “la moglie”, daa terra “della terra”, nu mm’o dì´ “non me lo dire”. Quest’ultimo fenomeno è indicato anche come “legge Porena”, dal nome dello studioso che nel 1925 descrisse il fenomeno, rilevandone la recente diffusione nella parlata plebea.

Nel calderone metropolitano di Roma, comunque,  il dialetto riesce a sopravvivere anche in pieno regime di italianizzazione, ma questo probabilmente a causa della sua peculiarità rispetto ad altri dialetti come quello Milanese o quello Veneto. In effetti il dialetto romanesco lo si può definire non tanto come un dialetto in senso stretto, ma come piuttosto come una “deformazione” della lingua italiana. La vicinanza strutturale esistente tra il romanesco e l’italiano, infatti, impedisce al dialetto di porsi come codice alternativo, dotato di una sua specificità funzionale, perché lo fa percepire semplicemente come un “italiano scorretto, volgare”, inibendo così o riducendo di molto la sua capacità di svilupparsi autonomamente (TRIFONE 1996:  p. 114).

Va sottolineata inoltre, oltre all’assenza di un’effettiva contrapposizione tra lingua e dialetto (fatto piuttosto peculiare rispetto ad altre parlate regionali), l’esistenza di una distanza piuttosto “ridotta” tra i vari livelli del “continuum dialettale”, la cui relativa omogeneità o compatibilità favorisce frequenti sortite dei parlanti sia dall’alto (che corrisponde più o meno all’italiano standard  con piccole divergenze limitate più che altro a fatti particolari di pronuncia, senza per altro avere riscontro nella grafia) verso il basso (quello che gli stessi abitanti della città chiamano in senso dispregiativo  “il romanaccio”), sia dal basso verso l’alto. Tale situazione quindi, paradossalmente, è la causa di una certa demotivazione normativa, che si coglie in modo più evidente tra le nuove generazioni.

Il processo di “osmosi” tra dialetto romano e lingua italiana è comunque da considerarsi bidirezionale. Tantissimi infatti sono i termini romani che ultimamente hanno trovato posto nei dizionari ufficiali della lingua italiana (forse anche grazie ad una presenza radio-televisiva non ininfluente della pronuncia “romana”). Termini tra i più tipici come abbacchio “Agnello”, pedalino “calzino”, bagnarola “tinozza” non sono solo romani né solo laziali, e trovano accoglienza nei dizionari italiani dell’uso, sia pure con l’aggiunta di un’etichetta come “regionale” o “dialettale”. (TRIFONE 1996: p.120). La “romanizzazione” del lessico italiano si traduce automaticamente in un’ “italianizzazione attiva” del lessico romano, tant’è vero che ad oggi si può affermare che uno ipotetico lessico specifico romano è quasi del tutto scomparso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Campania

 

La Campania di oggi corrisponde solo in parte a quella che erano i confini della regione in epoca medievale, dal momento che  anticamente questa regione comprendeva anche Gaeta e Fondi. Forse a causa della sua densità abitativa sempre statisticamente più alta rispetto a quella delle ragioni limitrofe, la Campania ha subito tutto sommato in modo abbastanza ridotto lo stanziamento delle popolazioni immigrate che hanno conservato la loro lingua (esiste tuttavia un’ “isola linguistica” presso Greci, in provincia di Avellino, dove la maggior parte della popolazione parla albanese). In ogni caso, essendo stato un territorio soggetto a varie vicissitudini (prima territorio del ducato longobardo di Benevento, in seguito territorio del Regno, con parti importanti come tutta la zona di Benevento annesse ai territori pontifici), tutte le popolazioni provenienti dall’esterno hanno lasciato tracce più o meno vistose del loro passaggio. Basti pensare, per fare un esempio recentissimo, al termine sciuscià “lustrascarpe”, riconducibile al periodo della presenza nella regione di soldati americani durante la seconda guerra mondiale (dal termine inglese shoe shine) (BIANCHI 1996: p. 191).

Come nel caso del Lazio, anche nella Campania è presente una unità dialettale di fondo dovuta ad una presenza “egemone” e fondamentale per tutta l’area geografica come quella della città di Napoli.

Tra le caratteristiche fonetiche più interessanti presenti nel napoletano e comuni in quasi tutte le altre aree della regione, possiamo  notare come sia la dittongazione sia la chiusura metafonetica (di e e di o  inizialmente chiuse in presenza di i e di o finali derivate da u latina) svolgono una funzione morfologica: la prima permette di distinguere i femminili da i maschili, mentre la seconda in alcuni casi permette di distinguere i plurali dai singolari (ad esempio mese e guaglione opposti ai plurali mise e guagliune). Abbastanza singolare è inoltre la quasi assenza del tempo futuro, sostituito da perifrasi come “aggia parlà” in luogo sia di “devo parlare”, sia di “parlerò” o dal presente accompagnato da determinazioni temporali (es. l’anno prossimo vado in vacanza al mare).

La ricerca di una lingua letteraria sovraregionale inizia ad essere una costante della tradizione culturale Napoletana già dal cinquecento. Tuttavia l’italiano inizia ad espandersi decisamente in Campania intorno al 1800. La frequentazione abituale di Napoli da parte di studiosi ed uomini colti delle province innesca in quel periodo una sorta di “osmosi” che consente di instaurare un “flusso di ritorno” dalla città verso le aree più decentrate della cultura degli ambienti intellettuali.

Di particolare rilievo l’opera di italianizzazione svolta dal marchese Puoti, che con la sua scuola esercitò un notevole influsso sulla nuova generazione dei giovani intellettuali. Alla base della sua scuola vi era la “buona e ordinata lettura” di trecentisti e cinquecentisti, commentata e memorizzata dagli allievi che poi tentavano di riprodurla in testi il cui stile doveva consistere “in una certa scelta di parole solenni o nobili, non logore dall’uso, e non troppo antiquate, e in un certo periodare non troppo complicato o alla boccaccevole, ma pur sostenuto, solenne, copioso” (DE SANCTIS 1981: p. 49). Il Puoti aveva riconosciuto molto presto il prestigio del Manzoni, e lo aveva posto da subito tra gli autori esemplari, dimostrando in questo modo una scelta verso un modello di lingua comune, ed una riflessione linguistica che caratterizzò gli intellettuali della  Campania. Del resto l’incremento delle stampe napoletane dei Promessi Sposi fu molto precoce, ed arrivò a raggiungere ben 34 edizioni, tra cui molte popolari e non autorizzate, indizio di un mercato particolarmente attento e ricettivo.

Il Puoti arrivò a scrivere un metodo per l’insegnamento della lingua nelle scuole, nel quale asseriva espressamente che i primi destinatari dell’insegnamento della lingua sono i padri di famiglia, coerentemente rispetto ad un contesto culturale in cui l’istruzione primaria era di tipo privato e prettamente domestica. Il suo metodo si basava sulla trasmissione orale, in modo graduale, dell’insegnamento della lingua, per arrivare solo in seguito ed in fase più avanzata allo studio delle regole della lingua sulla base dei testi. Il Puoti inoltre in una serie di note fa ricorso molto spesso al confronto tra italiano e lingua regionale, dimostrando di voler implicitamente suggerire ai maestri il criterio di comparazione tra lingua italiana e dialetto (es. “bambola quella che i fanciulli chiamano pupata e che dicesi anche fantoccio in toscano” – PUOTI 1833 p. 45).

Il metodo del Puoti condizionò per lungo tempo le metodologie didattiche delle scuole campane, che focalizzarono per un lungo periodo l’insegnamento della lingua italiana più che sulla grammatica e sulla sintattica dell’italiano, su un metodo prettamente comparativo tra il lessico dialettale ed i lessico italiano. Ciò si evince anche dai manuali destinati alle elementari, che sono per lo più una serie di voci dialettali con corrispondenze italiane univoche, dove mancano in generale notazioni sulla sintassi e sulla costruzione del periodo, demandate ad una fase più avanzata dell’insegnamento.

Per quanto riguarda i regionalismi presenti nella lingua italiana di uso comune, c’è da dire che un ruolo fondamentale in questo senso ha giocato la già citata precoce e duratura diffusione dei Promessi sposi nell’area campana, cosa che contribuì non poco all’eliminazione, in larghi tratti del tessuto sociale, di alcuni dei regionalismi più esasperati in favore di una espressività più propriamente “italiana”.  Molto importante nella didattica di correzione dei regionalismi è anche l’opera “Idiotismi: voci e costrutti errati di uso più comune nel Mezzogiorno d’Italia”, di Siniscalchi, edito nel 1889 e con una terza edizione nel 1902. Il Siniscalchi registra nella sua opera le componenti regionali dell’italiano meridionale (in particolar modo mettendo in evidenza la specificità dell’italiano della Campania), che si caratterizza oltre che per le interferenze dialettali, per frequenze di arcaismi e francesismi lessicali e sintattici. Ad esempio, a proposito dei francesismi popolari, troviamo nella sua opera, alle rispettive voci: “enveloppe è voce francese schietta, e di cui si servono anche i portieri. In italiano bisogna dir busta o sopraccarta; Colonnetta per comodino da notte è pretto francesismo… quel piccolo mobile di legno che si tiene accanto al letto, bisogna chiamarlo comodino… Gattó è il francese Gâteau, e vale  focaccia. Ma da noi s’intende.. un dolce.. che in buon italiano si chiama torta” (SINISCALCHI 1902 p. 42). Inoltre il Siniscalchi dimostra particolare attenzione all’utilizzo di alcuni arcaismi o voci improprie, come sottolinea nella propria introduzione alla terza ristampa del 1902 puntualizzando il significato del termine “Idiotismi” utilizzato nel titolo: “Non paia strano se esso non risponde perfettamente al contenuto, se molto modi errati non sono veri idiotismi, secondo l’uso più comune, ma piuttosto solecismi, o arcaismi, o voci improprie, che hanno però tutti e sempre la loro base nel linguaggio provinciale” (SINISCALCHI:1902 p.7). La “preoccupazione” del Siniscalchi verso l’utilizzo improprio di questi termini non era sicuramente infondata, visto che ancora oggi gran parte di essi sono tuttora presenti nell’italiano regionale contemporaneo della Campania. In taluni casi si tratta di una accezione semantica particolare, di un senso regionale dato a termini della lingua comune, diacronicamente stabile nella parlata regionale: catarro (raffreddore), cercare (chiedere), levare/mettere la tavola (sparecchiare/apparecchiare), ritirarsi (rincasare) (BIANCHI 1996: p. 253). Altri fenomeni tipici dell’italiano regionale della campania sono una forte tendenza della sibilante ad affricarsi dopo l,r,n  (inzieme, falzo, perzona), e un discostarsi in alcuni casi per genere e numero dallo standard italiano riprendendo forme più generalmente regionali (il guardio, gli analisi, lo scatolo). Non è raro inoltre incontrare locuzioni preposizionali prodotte da sopra/sotto, dentro/fuori, (es. passai per disotto ad una chiesa, la gente da sopra i balconi) , forme queste che non è difficile riscontrare persino nei giornali locali. Molto comuni inoltre  (anche se riscontrabili nelle fasce con distacco minore dalle forme dialettali) sono le combinazioni ricorrenti del periodo ipotetico come se potessi facessi e se potrei farei. Fenomeno significativo è inoltre la costruzione con l’infinito passivo in luogo del congiuntivo (voglio essere fatto un servizio, voglio essere spiegato).  Non va dimenticato inoltre il gioco delle corrispondenze tra i regionali stare e tenere per “essere” ed “avere”, molto ricorrenti anche nel parlato dei più colti. (BIANCHI 1996 p. 261).

Va notato infine come il parlare e scrivere l’italiano in Campania oggi, sia sentito quasi sempre come un traguardo raggiunto, indipendentemente dal grado di regionalità o dialettalità della loro produzione. Il dialetto viene così rivisitato come lingua da non dimenticare, come fenomeno di recupero culturale, anche se nella realtà il dialetto spesso si combina e si interseca con un italiano approssimativo. Sulla percezione del parlato regionale a livello medio, comunque, occorre notare un atteggiamento di scarsa autocensura nel parlato quotidiano. Anzi, in alcuni casi la parlata regionale più macroscopica viene addirittura “elogiata” e utilizzata in chiave comica, come ad esempio succede nei vendutissimi libri di Luciano De Crescenzo, che sfruttano appunto una regionalità di contesti e di espressioni tipiche per raggiungere una comicità che in generale è gradita anche nelle altre regioni.


L Umbria

 

Il panorama linguistico dell’Umbria, essendo stata la regione da sempre antico terreno di scontro e di tendenze ed influssi di varia provenienza, si presenta molto composito e variegato. La regione infatti non offre una fisionomia linguistica unitaria e tanto meno coincidente con i propri confini, che in effetti “non hanno nessun significato linguistico, risalendo pressappoco alle conquiste di Perugina fra il XIII e il XIV secolo” (BALDELLI 1983 p.209). Le condizioni geomorfologiche dell’ Umbria, regione “aperta” per eccellenza per la quasi totale assenza di barriere naturali, e le antiche divisioni etniche e territoriali, alimentate anche dai continui contatti e dalle vicendevoli mutazioni con le aree limitrofe, hanno portato alla creazione di una realtà regionale di natura puramente amministrativa, che “non solo non e’ definita per così dire con nettezza verso l’esterno, ma non è neanche al suo interno unitaria” (VIGNUZZI 1988 p.606). L’Umbria risulta essere infatti una fra le regioni d’Italia linguisticamente più disomogenee e travagliate, essendo quasi tagliata in due da quel fascio di isoglosse comunemente denominato “linea Roma-Ancona”. Si deve a Ugolini (1970) il primo sintetico e fondamentale panorama della variegata varietà linguistica dell’Umbria. In base ad una ricca documentazione proveniente da inchieste sul campo e dall’esame di testi in volgare medievale, Ugolini individua fondamentalmente 3 aree dialettali:

·       L’area settentrionale-occidentale (o “perugina” in senso lato), che include Perugia, l’alta Valtiberina e l’Eugubino.

·       L’area meridionale-orientale, che si estende a sud e a levante della linea Nocera Umbra-Spello-Todi-Baschi e include i territori di Foligno, Spoleto, Terni, Amelia e Norcia

·       L’area meridionale-occidentale sulla destra del Tevere, che comprende il territorio Orvientano

I Dialetti dell’area settentrionale-occidentale risentono sin dall’epoca medievale degli influssi provenienti dall’area Romagnola ed Emiliana e dalla Toscana Orientale. I fenomeni più caratterizzanti di questa sezione sono la palatalizzazione di a tonica in sillaba libera (seguita cioè da una sola consonante), l’assenza di qualsiasi tipo di  metafonesi, il dittongamento spontaneo del toscano di e aperto e la doppia pronuncia, sorda e sonora, di provenienza toscana, della s tra vocali. Altri fenomeni caratterizzanti sono anche l’uso dell’articolo determinativo con i nomi propri femminili (la Maria ), le preposizioni e gli avverbi derivanti dal latino INTUS (nto, to, tuli, tuqui). A livello lessicale l’influenza settentrionale e’ riscontrabile ad esempio in voci come fostugo (fusto di pianta), garognola (malleolo), mentre quella toscana in voci come ad esempio dolco (mite), topacéca (talpa).

Per quanto riguarda l’area meridionale-orientale, si tratta di un’area più tipicamente mediana e conservativa. Essa presenta una fenomenologia analoga a quella di dialetti limitrofi come l’aquilano, il reatino, il maceratese, ed ha risentito nel tempo, come gran parte delle aree dell’Italia centrale, dell’influenza linguistica di un polo di primaria importanza di diffusione linguistica come quello di Roma.  I suoi tratti più significativi sono l’indebolimento delle vocali fuori d’accento principale, la metafonesi centro-meridionale di e, o toniche chiuse tendenti a i, u, nonché un sistema di vocalismo atono finale a cinque fonemi. Sono inoltre elementi caratterizzanti tutti gli esiti tipicamente mediani e meridionali di b (v), rb (rv) mb (mm) nn (ll), oltre che al dileguo di d intervocalico. Si riscontra inoltre la presenza della forma “forte” dell’articolo determinativo lu, la mancanza dell’articolo determinativo davanti a nomi propri femminili (a differenza quindi dell’area settentrionale-occidentale) e la presenza di agglutinazione enclitica coi sostantivi a carattere affettivo (sòrema “mia sorella”,  mammeta “tua madre”)

La terza e ultima area, quella meridionale-occidentale, mostra una notevole affinità con i territori toscani meridionali ed alto-laziali, e si differisce più che altro in negativo rispetto alle due aree sopraccitate per la mancanza di alcune caratteristiche tipiche delle due aree. Sono infatti assenti sia la palatalizzazione di a tonica di sillaba libera, sia la metafonesi. Mancano inoltre l’indebolimento delle vocali fuori d’accento principale e la distinzione tra –o e –u finali, che riduce il sistema vocalico atono a solo tre fonemi, e gli avverbi derivanti da INTUS. A parte dunque qualche tratto comune alla Toscana meridionale e alla sottovarietà perugina, la fenomenologia relativa al consonantismo ed alla morfosintassi è quella tipicamente mediana e meridionale, e risente anch’essa della “ingombrante” presenza di Roma. Per quanto concerne il lessico invece, pur presentando qualche affinità con la Toscana e con il Lazio settentrionale, le voci di lessico rivelano comunque una notevole aderenza a quello che è il “fondo comune” della regione (MORETTI 1987 p.134).

Accanto a queste tre aree, recentemente sono state trovate due ulteriori aree “di transizione”: la zona “Scheggia-Todi” che si situa tra l’area settentrionale e l’area meridionale-orientale, e la zona Trasimeno-Pievese, a ridosso del confine toscano, che separa l’area dialettale “perugina” in senso stretto da quella orvietana (MATTESINI 1996: p.8). Entrambe, più che per una propria fisionomia linguistica, si caratterizzano per la mancanza o la presenza di alcuni dei tratti peculiari delle altre tre aree linguistiche.

Tutte questo ha determinato la formazione, nel corso dei tempi più recenti, di almeno tre varietà locali di italiano parlato.La varietà Perugina, innanzitutto, che si parla nell’area che ruota attorno al capoluogo di regione, che mostra una certa affinità con quella delle limitrofe province toscane. Questa varietà è contraddistinta dalla labilità delle vocali fuori da accento, che in alcuni contesti tendono addirittura a cadere, e dall’assenza della consonante laterale palatale dell’italiano, che è sostituita dal suono fricativo (famiiia “famiglia”, paiiia “paglia”). Troviamo inoltre la sostanziale assenza di raddoppiamento fonosintattico, l’affricazione della s dopo l,r,n (falzo, perzona, senzo) (MORETTI 1983 p.522-526).

Abbiamo poi la varietà altotiberina, riscontrabile nei comuni a Nord di Perugia. Questa varietà si avvicina fondamentalmente all’italiano parlato nella contigua area Marchigiana settentrionale. Si differenzia dalla varietà perugina per la presenza di una leggera palatalizzazione di a tonica di sillaba libera, oltre che per una tendenza allo scempiamento consonantico (alora, matina, mama), per la mancanza di rafforzamento fonosintattico e per una diversa distribuzione delle e,o toniche il cui timbro è condizionato dalla struttura della sillaba (tètto, pòllo, perché ma béne, cósa, paróla), ed una realizzazione di s sorda e sonora  che si avvicina a quella della cosiddetta “salata” (assonante a sc) degli abitanti della Romagna(MATTESINI 1996 p.43).

Abbiamo infine la varietà sud-orientale, parlata a sinistra del fiume Tevere e a sud del fiume Chiascio. Quest’ultima varietà si distingue dalle altre per la presenza del rafforzamento sintattico (rafforzamento che come abbiamo detto è pressoché assente nelle due aree precedentemente illustrate), come ad esempio quello di b e g tra vocali (problema, reggione) e quello enfatico delle stesse consonanti (bbene, ggiovedi). Altri elementi fortemente distintivi rispetto alle altre due aree sono la spirantizzazione (con una pronuncia che si avvicina di molto a quella delle aspirate del toscano) e la lenizione delle occlusive sorde, delle affricate c palatale e z e della f dopo nasale o liquida (angora “ancora”, cambo “campo”, condo “conto”, forde “forte”) (MATTESINI 1996 p.43).

In Umbria quindi pur esistendo degli “elementi di fondo” più o meno comuni a tutta la regione, le varie vicissitudini subite da questo territorio nel corso della storia hanno fatto sì che venisse a mancare una vera e propria koine linguistica. D’altronde nemmeno il processo di italianizzazione in atto nella regione, che va avanti oramai da un centinaio di anni, sembra aver avuto successo nel renderla in qualche modo più “omogenea” e coerente dal punto di vista linguistico, forse soprattutto per la mancanza, a differenza di altre regioni, della presenza di un grande centro di “irradiazione” linguistica all’interno della regione stessa.


La Toscana

 

 

Andando ad analizzare nel dettaglio le caratteristiche della lingua parlata nella regione Toscana, non si può sicuramente trascurare il fatto che comunque essa ha avuto (e forse ha tuttora) un ruolo diverso e di primissimo piano rispetto alle altre regioni d’Italia, in quanto l’italiano che oggi parliamo è comunque il risultato modellato attraverso i secoli di quello che era un toscano originario. Non si non si può non notare in questa regione il benefico influsso dell’esistenza sin da tempi molto antichi di un ben definito toscano delle scritture letterarie, regolarizzato e in un certo modo pianificato, quale modello di lingua per la letteratura “nazionale” (POGGI SALANI 1996: p.603). Questo fenomeno ha contribuito, fatto abbastanza unico rispetto alle altre regioni, a costruire una sorta di regolarità e di continuità tra la lingua parlata e la lingua scritta.

Parlando di Toscana va fatto un piccolo distinguo iniziale. Va evidenziato infatti il fatto che spesso, linguisticamente parlando, ci si riferisce all’ area “Toscana” avendo in mente quella che è la “Toscana linguistica”, che corrisponde grosso modo a quelli che sono i confini amministrativi della regione ma che generalmente non comprendono regioni come la Lunigiana,  nella quale risiedono dialetti di tipo settentrionale, e la cosiddetta “Romagna Toscana”, di influenze linguistiche molto più vicine alla regione romagnola che non alla Toscana stessa.

Dopo questa necessaria precisazione, passiamo ad una analisi più dettagliata di questa “toscana linguistica”. Al di la dei tanti volgarismi che traspaiono dalle carte latine, la prima vera comparsa di un volgare toscano scritto si situa a cavallo tra la fine del secolo XI e l’inizio del secolo XII, e si tratta di comparsa già abbastanza matura. (POGGI SALANI 1996 p.605). Trattasi del documento identificato come “Conto Navale Pisano”, scoperto in anni recenti. Il testo conferisce sicuramente prestigio ad una primogenitura Pisana del volgare toscano. È da sottolineare, infatti, come le ripartizioni politiche della Toscana in epoca antica, ed il succedersi delle varie preminenze economico-politiche, abbiano sicuramente avuto un influenza anche in campo linguistico. Così mentre si ha in epoca antica una prevalenza dell’area occidentale di Toscana per la forte potenza di Lucca tra le città dell’interno e Pisa sul mare (“Pisa [a quell’epoca] è la più grande città della Toscana e la più grande potenza navale del Tirreno e forse del Mediterraneo”, BALDELLI 1987: p. 65), l’espansione duecentesca favorisce le città dell’interno, con un deciso cambiamento nel quadro economico-politico degli equilibri della regione. Già agli inizi del 1300 Firenze è una grande città industriale, e l’espansione dello stato Fiorentino assume un ritmo accelerato con l’acquisizione via via nel corso degli anni di città come Pistoia, Prato, Arezzo, e la stessa Pisa nel 1406, cui si aggiunge anche Siena nel 1555. È in base a questi presupposti quindi che va analizzato il documento, molto importante in quanto pur essendo una semplice serie di note di spesa,  da prova di una buona varietà di specializzazione del lessico (vi si incontrano una cinquantina di tipi lessicali diversi tra nomi di materiali, nomi di lavori eseguiti, nomi di mestiere) e una discreta maturità della scrittura, che sembra dare prova di un uso molto vasto e ben consolidato della lingua toscana.

Il toscano comunque è una delle lingue che conosciamo meglio fin dall’antichità, grazie ad una testimonianza critica di assoluta eccezionalità come il “De Vulgari Eloquentia”, che si colloca nel periodo 1303-1305. Nella sua lucida analisi infatti il Dante individua le caratteristiche di parlate come il fiorentino, il pisano, il lucchese, il senese, etc. D’altronde non è un mistero che il volgare sia nato di fatto come lingua scritta proprio in toscana. Basti pensare che l’analisi di tutti i testi volgari editi in Italia databili dalle origini fino al 1375 (raccolta messa insieme ad opera del centro studi CNR Opera del vocabolario italiano) ha messo in evidenza come la stragrande maggioranza di questi testi (il 90% circa) siano toscani. Va detto, ad onor del vero, che a Firenze molto prima che in altre città nacque quel sentimento che “fece apparire alcuni secoli in anticipo rispetto agli altri stati italiani, degno di conservazione prima  e di venerazione poi qualsiasi reperto o documento della storia della città” (MORDENTI 1985 p.116). Va anche considerato che magari nelle altre regioni per la lingua scritta si continuava ad usare nel frattempo il Latino, o altre lingue. In ogni caso comunque, il dato è sicuramente vistoso e degno di nota. Certamente tanta “abbondanza” è in parte conseguenza della ricchezza e della prosperità nel campo di tutte le discipline letterarie ed artistiche della Toscana di quel periodo. Va anche però dedotto che evidentemente la gente all’epoca aveva una certa “buona considerazione” evidentemente del proprio grado di confidenza con la lingua scritta, grazie anche ad un elevatissimo tasso di alfabetizzazione rispetto alle altre regioni di Italia dell’epoca. Poiché si scrive in volgare e non più in latino, la scrittura diventa alla portata “di tutti”, e non più appannaggio di una ristretta classe di persone (il ceto “colto”).

È per una certa concomitanza di tutte queste circostanze e situazioni del tutto “particolari” e diverse rispetto alla storia della lingua nelle altre regioni d’ Italia che in Toscana accade un fenomeno se vogliamo di senso completamente opposto a quello delle altre Regioni. Mentre infatti nella grande maggioranza delle regioni d’Italia si guarda alla lingua dei propri antenati (il dialetto) un modello dal quale distaccarsi il più possibile per giungere ad una forma di espressione linguistica diversa e scollegata dalla forma regionale, in Toscana la lingua “contadina”, del popolo, viene indicata nel corso dell’ottocento come il modello “classico” da riscoprire, pur prestando attenzione agli usi moderni del Toscano. Espressioni “contadine” o antichi arcaismi trovano un alto tasso nel grado di gradimento da parte delle classi più colte e degli studiosi della lingua.  È innegabile infatti che il toscano godesse di un certo prestigio, anche ( e forse soprattutto) al di fuori della Toscana stessa. È in questo contesto,  nel contesto di una unità nazionale in via di compimento, di una necessità per la nazione stessa di avere una lingua comune, che il Toscano va a collocarsi, e in questo contesto esso viene additato da più parti come la soluzione “ideale” e “naturale” a queste problematiche.

Per tutta questa serie di motivi si può affermare con una certa tranquillità che in Toscana “dialetto e lingua si distinguono in realtà solo alla periferia di un vasto territorio neutrale, in quanto coincidenti” (POGGI SALANI 1996 p. 679). Non esistono in Toscana diversi versanti linguistici,  ma piuttosto un intrecciarsi complesso e molto vario di forme e modi da luogo a luogo, in funzione anche del grado di istruzione e di esperienza linguistica dei parlanti. Nel complesso, comunque, intonazione e pronuncia del popolo e del parlato “dialettale” vengono in generale trasportati (salvo alcune eccezioni particolari) nella pronuncia dell’Italiano.  Certo, l’italiano “normativo” di oggi ha avuto (ed ha tuttora) sicuramente delle influenze sulla parlata toscana, forse soprattutto sul piano morfologico-sintattico e lessicale. C’è da rilevare comunque (e in questo, tutto sommato, risiede la fondamentale diversità tra la lingua “regionale” toscana di oggi e l’italiano) che alcuni elementi lessicali che in passato e nei tempi più recenti sono stati oggetto di una certa “emarginazione” da parte dell’Italiano vero e proprio, resistono comunque ancora oggi nell’espressività della lingua regionale, oppure, se si tratta di lessico, possono “rifugiarsi” in ristrutturazioni semantiche all’interno delle quali assumono un nuovo significato. È il caso ad esempio del termine giacchetta che non ha in toscano valore diminutivo rispetto a giacca, o ad esempio giubba, il cui significato ha assunto oggi in italiano (“giacca da lavoro“) un corrispettivo leggermente diverso dal suo significato originario. Alcune forme di espressione invece rimangono magari confinate all’utilizzo prettamente regionale, dove però assumono a volte un carattere di “ricercatezza” e di coloritura nell’espressione rispetto ad i loro “concorrenti” italiani (es. gota in luogo di guancia, noi si fa, noi si faceva, babbo). Un fenomeno di questo tipo è da esplicarsi probabilmente, come abbiamo già detto, come un generalizzato senso di sicurezza linguistico, derivato da una continuità senza fratture dal dialetto alla lingua. D’altronde questo atteggiamento di continuità verso la parlata dialettale, che da sempre pretende un rapporto di “verità” tra la pronuncia e grafia, lo si può riscontrare anche  nello scritto delle persone colte, dove non è difficile trovare molto più sovente che in altri scritti la rappresentazione di elisione e troncamento, e dove si riscontra in generale una certa preferenza per termini come semmai, pressappoco (nei quali si manifesta il rafforzamento sintattico), o ancora dove si trovano facilmente piccole varianti formali, come la prevalenza di a in luogo di ad davanti a vocale, o di e su ed. Ci sono poi una serie di “casi minimi”, che stanno mostrando una certa tendenza a scomparire, di differenze sottili ma che comunque possono essere utilizzate un po’ come cartina di tornasole per i toscani d’area centrale della “vecchia generazione”, come ad esempio l’utilizzo del prefisso re- in luogo di ri- in alcune parole che più frequentemente in italiano hanno ri-. Emblematico forse è il caso di resultare (e analogo sostantivo resultato), ancora oggi utilizzato a vari livelli nella lingua tradizionale. E forse ancora più significativo è il fatto che nella guida telefonica di Firenze, fino al 1991-1992 i vari servizi del Comune compaiono distinti in repartizioni, in accordo con targhe o certificati dello stesso comune (POGGI SALANI 1996: p 681).

In conclusione possiamo affermare senza troppi timori che, dal punto di vista della lingua regionale, la Toscana fa un po’ storia a se stante rispetto alle altre regioni d’Italia, proprio per il fatto che il rapporto tra lingua regionale e Italiano vero e proprio è molto stretto, e dai confini non facilmente identificabili. In effetti forse il termine di “lingua regionale” per questa regione non ha una valenza significativa come per le altre regioni d’Italia, o perlomeno assume una valenza diversa. L’analisi della parlata regionale toscana, infatti, assume forse un significato ed un fine completamente diverso. Mentre nelle altre regioni l’ottica di confronto con l’Italiano ha come scopo quello di portare in risalto le “discordanze” della lingua regionale rispetto all’Italiano, in questo caso è molto più facile che si finisca ad analizzare il tutto in un’ottica completamente opposta, e cioè che ci si ritrovi a verificare, analizzando la parlata toscana, di quanto l’Italiano si sia al giorno d’oggi “allontanato” da quella lingua che è unanimemente riconosciuta da più parti come la sua “illustre progenitrice”.

 


Le Marche

 

 

Non è un puro frutto del caso che le Marche si chiamino con un nome al plurale. Il nome di questa regione infatti deriva dal germanismo marca, termine che veniva utilizzato in epoca carolingia per identificare le province di frontiera. Mutata la funzione del termine in quella di “organismo autonomo”, il termine venne attribuito alle piccole “marche” rette da signori di origine franco-germanica che ebbero breve esistenza tra XI e XII secolo (BRESCHI 1996 p.700). Le Marche si inquadrano entro gli odierni confini regionali, all’interno dell’Italia “mediana” (sia geograficamente sia linguisticamente ) con sufficiente approssimazione rispetto ad un contesto naturale ben delineato. A Nord i fiumi Conca e Foglia, a Est la catena appenninica, a Sud il Tronto, a Ovest il Mare Adriatico.  Il territorio delle Marche ha caratteristiche del tutto peculiari che hanno finito per influenzare non poco lo sviluppo interno della regione, sia dal punto di vista sociale che, ovviamente, dal punto di vista linguistico. Il territorio della regione è infatti tutto un susseguirsi di rilievi montuosi, con una serie ininterrotta di stretti bacini che volgono in senso parallelo verso il mare. Un territorio impervio, che ha sicuramente sfavorito la nascita di grandi agglomerati urbani e di  vie di comunicazioni efficienti. In effetti l’unico grande centro urbano è la città di Ancora, che è anche l’unico porto naturale della regione (il resto della costa è anch’esso molto aspro, con rilievi rocciosi che terminano a picco sul mare). Questa situazione ha favorito un alto tasso di dispersione geografica, sfavorendo la nascita di contatti e di vie commerciali stabili ed efficienti all’interno della regione, soprattutto tra Nord e Sud, tanto che ancora oggi tutto sommato sussiste “una precaria consapevolezza dell’identità regionale” (BRESCHI 1996 p.701). In effetti le uniche “arterie” viarie e commerciali degne di nota della regione sono la via Adriatica, che corre lungo la costa, e le vie Salaria e Flaminia, che comunque hanno costituito in passato, soprattutto quest’ultima, un importante “via di transito e di collegamento” tra Roma e la Pianura Padana. O almeno, cosi fu fino alla conclusiva disfatta dei Longobardi, momento storico nel quale queste due importanti vie di comunicazione furono completamente soppiantate dalle nuove vie che passavano per la Toscana, determinando così l’estromissione delle Marche dalle vie di comunicazione tra il Nord ed il Sud, ed il suo conseguente progressivo isolamento dal resto del paese.

Alla luce di tutto questo appare abbastanza ovvio come queste circostanze “sfavorevoli” abbiano dato luogo ad una coesistenza di tante aree linguistiche che hanno vissuto a lungo in isolamento le une dalle altre, dando luogo ad un territorio, linguisticamente parlando, conformato a “macchia di leopardo” e nel quale in effetti non sussiste, come nel caso dell’Umbria, una vera e propria koine regionale. In effetti è molto difficile persino suddividere la regione in aree linguistiche, tanto la situazione è variegata e a volte quasi del tutto priva di elementi comuni o di “punti di contatto” tra l’una e l’altra area, anche se a volte magari quasi adiacenti. È stato Ugo Vignuzzi ad aver rimotivato gli studi sincronici e diacronici propri e di altri sulla questione Marchigiana. Vignuzzi distingue fondamentalmente due aree linguistiche prevalenti all’interno della regione. Un’area settentrionale, grosso modo fino all’altezza di Senigallia, collegata da una parte con la Toscana orientale e l’Umbria settentrionale che sfocia dall’altra nei dialetti Romagnoli. Un’area meridionale, “più conservativa e caratteristicamente mediana” (VIGNUZZI 1988 p. 620), da collocare nel blocco delle aree linguistiche orientale e centro meridionale dell’ Umbria, l’area settentrionale orientale del Lazio, l’area dell’Abruzzo Aquilano dialettologicamente Sabino, e, in definitiva, con i dialetti meridionali continentali. Mentre l’area settentrionale è piuttosto compatta, quella meridionale si può suddividere a sua volta in tre sub-aree, corrispondenti alle province di Ancona, di Macerata e di Ascoli Piceno. In realtà il fatto della suddivisione in aree e sub-aree di per sé non sarebbe un fatto estremamente caratterizzante rispetto ad altre regioni d’Italia, ma quello che stupisce nelle Marche è la massima polarizzazione tipologica tra le singole parlate delle aree e delle sub-aree, tale da rendere estremamente improbabile il riconoscimento di tratti comuni riconducibili ad un sistema unitario di base identificabile come “dialetto marchigiano”. Non è facile, all’interno dell’area romanza, trovare un’altra area nella quale il substrato dialettale raggiunga un così elevato livello di frammentazione. Certamente le Marche ci forniscono un singolare esempio di “terra di frontiera”, un luogo di mediazione tra correnti linguistiche provenienti dal Sud e dal Nord, un luogo dove si esalta e si confronta, in un equilibrio dinamico di forze, la coesistenza di più sistemi linguistici. Tale “polimorfismo” è il risultato del sovrapporsi di una stratificata successione di realtà linguistiche esterne alla quale la locale popolazione ha potuto opporre solo una debolissima resistenza, sicuramente anche a causa dell’assenza di un centro autorevole e prestigioso capace di “irradiare” il territorio circostante, fenomeno che invece si riscontra in regioni come la Campania, il Lazio, la Toscana.

Tale quadro di complessità linguistica nelle marche, dunque, ha origini ben lontane. La regione, d’altronde, è stata scarsamente popolata fino ai tempi più recenti, e basti pensare che alla fine dell’Alto Medioevo il numero dei centri urbani di età romana era di circa una trentina di unità in tutta la regione. Otto secoli dopo, nel 1306, al parlamento di Montolmo sono presenti delegati di solo 73 comunità, ma solo dodici di esse vantano il titolo di civitates ( BRESCHI 1996 p. 705). In un contesto del genere, è lecito dedurre che la cultura degli abitanti della regione, non essendovi presenti sul territorio grossi centri di irradiazione culturale, fosse abbastanza limitata. Già dalle carte notarili del secolo XI iniziano ad apparire nei testi scritti copiosi volgarismi, dettati si in parte da esigenze pratiche, ma forse in massima parte dalla scarsa cultura dei notai, cosa che si evince anche dalla presenza in questi documenti di un Latino molto scorretto.  Ciononostante, nel corso dei secoli la regione ha saputo dare un contributo importante alla storia letteraria del nostro paese, dapprima grazie alle numerose abbazie presenti sul territorio, e in seguito nella storia più recente con figure di primissimo piano come quella ad esempio del Leopardi. Nei primi testi di quest’ultimo, seppur scritti in un italiano abbastanza corretto a livello fonetico, compaiono abbastanza evidenti alcuni tratti “indigeni”, quali il dileguo di segmenti iniziali e finali, ed alcuni significativi fatti morfologici (ad es. tua indeclinabile) e lessicali (canestrello, arrisicare ). Di queste testimonianze purtroppo non rimangono molte tracce, visto che l’atteggiamento del Leopardi nei confronti del dialetto fu sempre abbastanza severo, cosa che molto spesso lo indusse a correggere subito eventuali “errori involontari” posti nei suoi scritti. È il caso ad esempio del pesciariello sfuggitogli nel “Dialogo della moda”, mutato poi in pesciolino nell’edizione del ’35 (MIGLIORINI 1988: Vol. I p.651). Il pensiero del Leopardi in questo senso è abbastanza esplicito: la letteratura dialettale è analizzata solo per un fatto di propedeuticità al discorso della frammentazione, evoluzione, fruizione delle lingue.  La letteratura dialettale secondo il Leopardi non è destinata a passare alla posterità (BRESCHI 1996 p. 755).

Oltre a tutte le cause precedentemente citate, atteggiamenti come quelli del Leopardi, evidentemente abbastanza diffusi nella regione, e sicuramente la mancanza di una linea culturale autonoma attorno alla quale avrebbero potuto maturare le esperienze creative, causano uno dei problemi fondamentali delle Marche, e cioè una scarsezza di opere di “letteratura dialettale” giunta ai giorni nostri. Forse solo nel periodo del tardo ottocento si ha traccia di una produzione letteraria di questo tipo, ma fondamentalmente grazie ad una nuova considerazione del folclore e del dialetto che in Italia aveva iniziato già a circolare dai primi anni del secolo, nel momento in cui la linguistica assume dignità di scienza autonoma e l’ideologia romantica scopre e mette in valore le radici delle culture nazionali. Nelle Marche in questo periodo diventa prioritario l’interesse per le tradizioni popolari, e sono proprio i raccoglitori di canti che nel corso di ricerche sul campo portano finalmente alla luce il substrato culturale regionale, mettendo in risalto l’eccezionale frazionamento dialettale esistente nella regione e spostando l’attenzione sull’aspetto linguistico. In generale comunque per molti dialettali marchigiani la scelta del codice linguistico non è una scelta di cultura ma semplicemente la traduzione in dialetto di modelli colti o “l’abbassamento delle virtualità espressive e ontologiche del dialetto a temi inconditi per la lingua nazionale” (BRESCHi 1996 p. 757).

Per quanto riguarda le caratteristiche salienti dell’italiano regionale delle Marche, così come per quanto riguarda i dialetti, la situazione è molto variegata e mutevole, in funzione delle varie aree della regione. Ad esempio nell’area urbinate c’è una tendenza alla caduta delle vocali esterne e interne diverse dalla a. Un altro fenomeno tipico è lo scempiamento delle consonanti doppie, per cui il termine ‘bolletta’ diventa boletta. La lettera z, come nella Romagna, tende a diventare s, (piassa, “piazza”, tassa, ”tazza”).. Nell’area pesarese invece un fenomeno singolare è la tendenza a non distinguere tra terza persona singolare e terza persona plurale nei verbi. Esistono inoltre alcune circostanze in cui la o finale tende a cadere (pranz “pranzo”), come pure si segnalano episodi di cambiamento (lenizione) della vocale sorda, come in  "diga" per "dica", "figu" per "fico”. Nell’area di Ancona si segnalano come fenomeni caratterizzanti una tendenza al cambio di "uo" in "o" (bono “buono”) e la  presenza in alcuni casi di fenomeni di assimilazione delle lettere, (callo caldo). In generale, in molte  delle aree sopracitate, è presente il fenomeno dello scempiamente consonantico (mama, guera), oltre ad essere presenti alcuni elementi tipici dell’area centro-meridionale, come la tendenza a sonorizzare le consonanti occlusive sorde dopo nasale, ad esempio le “t” in “d” (prondo  “pronto”)

 


La Puglia

 

La Puglia viene costituita, all’epoca della dissoluzione dell’antico Regno di Napoli, riunendo insieme le province di Terra d’Otranto e di Terra di Bari, e accorpandovi la Capitanata (MASELLA 1989: p.281). In un'unica struttura amministrativa, confluiscono in questo modo popolazioni con culture diverse, lingue diverse, tradizioni diverse. Questo aiuta a capire come mai, se si analizza la situazione linguistica odierna della Puglia, il territorio appare nettamente separato in due blocchi distinti, “lungo un confine che corre da Taranto a Ostini, attraverso Grottaglie e S. Michele talentino” (COLUCCIA 1996: p. 274). A nord di questo confine si può identificare l’area pugliese centro-settentrionale, che presenta numerosi punti di contatto con il sistema linguistico napoletano. A sud invece troviamo l’area salentina, dal punto di vista linguistico molto più “affine” a Calabria centro-meridionale e Sicilia. Queste due macro-aree non vanno viste come due entità nette, ben definite e completamente scollegate l’una dall’altra. Esse infatti possono poi essere suddivise al loro interno in varie sub-aree, ed è importante sottolineare che il “passaggio” dall’una all’altra area linguistica non è repentino e marcato da una netta linea di confine,  ma è abbastanza progressivo e graduale, con zone di territorio “centrale” che presentano elementi comuni all’una e all’altra area.  Certo è abbastanza semplicistico ricondurre in modo meccanico l’origine delle attuali partizioni linguistiche alle vicende storiche delle varie popolazioni che si sono susseguite e che sono venute a contatto tra loro sul territorio regionale. Sicuramente però gli avvenimenti storici finiscono, a volte in percentuale maggiore a volte in percentuale minore, per influenzare anche la storia linguistica di un determinato territorio. Linguisticamente parlando, la Puglia ha una storia molto interessante. Da una parte perché è il punto di “contatto” tra la civiltà greca (presente nella regione dal VII secolo a.C. almeno fino alla seconda metà del IV Secolo a.C. ) e quella romana, che condusse la regione nel I secolo a.C. ad avere un altissimo grado di romanizzazione (D’ANDRIA 1979 p.273). Dall’altra perché in epoca Medievale solo una parte della regione fu assoggettata al dominio dei Longobardi, mentre la rimanente parte del territorio rimase di dominio Bizantino. È interessante notare come il territorio controllato dai Longobardi, dal punto di vista linguistico ha “accettato” al suo interno una lunga serie di innovazioni linguistiche provenienti dal Nord, innovazioni rimaste pressoché ignote nell’altra area. Inoltre va considerata anche l’espansione Araba, che fece sentire la propria influenza sulla regione intorno alla metà del IX secolo.

Il processo dell’affermazione scritta e parlata del Volgare, dunque, in questa regione deve fare i conti con la presenza in loco, oltre che del Latino, di numerose altre lingue e culture, a lungo in concorrenza tra loro. Certo, i residui linguistici della convivenza o del “passaggio” sul territorio di alcune etnie non sono sempre evidenti, spesso anche a causa dello scarso prestigio che la lingua “entrante” aveva nei confronti della cultura latino-romanza. Basti pensare ad esempio alle migrazioni slave, che a più riprese si indirizzarono verso i centri pugliesi, ma i cui “lasciti” dal punto di vista linguistico sono veramente minimi. Praticamente si limitano a “qualche toponimo ed ad un manipolo di slavismi lessicali in alcuni dialetti odierni del Gargano” (COLUCCIA 1996 p. 277).

Il volgare inizia ad attestarsi nella regione come lingua scritta, in base ai documenti giunti fino ai giorni nostri, dalla seconda metà del secolo XIV. In quest’epoca (e sempre più massicciamente nei periodi successivi) il mondo delle attività mercantili o commerciali inizia a ricorrere per necessità pratiche all’uso scritto del volgare, anche quando si tratta di operatori di livello abbastanza umile. Alla promozione del volgare contribuisce anche efficacemente l’azione di alcune corti, intorno alle quali si sviluppano anche fenomeni di una certa rilevanza letteraria. In epoca successiva, sicuramente ruolo importante è giocato dalle Accademie, numerose e diffuse sull’intero territorio regionale, sebbene queste non abbiano mai raggiunto un ruolo di prestigio straordinario, neanche agli occhi degli stessi locali. Non bisogna trascurare poi l’attività della stampa, che anche se si sviluppa in netto ritardo rispetto ad altre regioni meridionali, inizia ad essere di una certa consistenza a partire dal milleseicento.  Purtroppo nel campo dell’istruzione la Puglia non riesce a stare “al passo” con le altre regioni d’Italia. Secondo rilevamenti statistici, verso la fine dell’ottocento la situazione scolastica in Puglia è una delle peggiori di tutto il mezzogiorno. Fino al 1860 il tasso di scolarizzazione non supera l’ 8%, mentre negli anni immediatamente successivi arriva ad un livello oscillante tra il 12% ed il 14%, dato che comunque è sicuramente deprimente rispetto al resto del Sud Italia. Fortunatamente la Puglia riesce in qualche modo a colmare il “gap” nel cinquantennio successivo, portando  gli analfabeti della regione da un 64% del 1911 ad un 24% nel 1951. Sicuramente però il periodo “buio” precedente ha svolto un suo ruolo nello sviluppo linguistico dell’italiano della regione.

L’analisi di alcuni testi scritti nel periodo che va dai primi del novecento alla seconda guerra mondiale mette in risalto alcuni elementi interessanti. Va precisato che si tratta di testi scritti in “italiano popolare”, che, come faceva giustamente notare De Mauro[11], non è dialetto ma è pur sempre italiano, seppure abbastanza lontano rispetto all’italiano letterario ed utilizzato dalla borghesia. Secondo la definizione di Cortellazzo, l’italiano popolare è “il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto” (CORTELLAZZO 1972 p. 11), dando risalto alla presenza di errori rispetto allo standard. In questi testi, si rilevano alcuni dei tratti caratteristici dell’italiano regionale di quei tempi, come ad esempio il raddoppiamento fonosintattico di –bb- (sabbato), l’utilizzo di labiovelare sorda (es querra, “guerra”), l’uscita finale molto spesso di co, lo, in cu, lu, dislocazioni segmentali a sinistra e a destra (frasi segmentate del tipo “il libro, l’ho letto” oppure “l’ho letto, il libro”).

Il quadro attuale è abbastanza mutato, grazie ad una più elevata diffusione della lingua italiana ed ad una maggiore scolarizzazione. L’italiano regionale della Puglia di oggi è fortunatamente meno “scorretto” dal punto di vista sintattico. Vi permangono comunque alcuni fenomeni caratterizzanti, come la già citata uscita finale in cu, lu, o pronunce del tipo “penzare, penzioni”, tra l’altro tipicamente centro-meridionali. L’area pugliese centro-settentrionale tende a sonorizzare gli antichi gruppi latini “nt”, “nc”, “mp” in “nd”, “ng”, “mb” e la “s” in “z”, mentre l’area salentina tende a conservarli intatti.  Un’altra particolarità fonetica dell’area pugliese centro-settentrionale, dovuta probabilmente all’influenza sannita, è la trasformazione nel dialetto della zona dei gruppi “nd” e “ll” in “nn” e “dd” (così “quann” per “quando”, “cavadd” per “cavallo”). Questa caratteristica fonetica ha toccato però anche parte del Salento, visto che in  alcune delle zone di quest’area, per esempio, si dice “quannu” per “quando”. Ovviamente tale fenomeno fonetico emerge spesso e volentieri anche nella parlata italiana.


CONCLUSIONI

 

 

 

 

Abbiamo visto, nel corso di questa rapida carrellata sull’italiano regionale delle regioni dell’area centro-meridionale, di come la nostra storia linguistica sia stata influenzata dai fattori più disparati. Abbiamo visto che la storia linguistica di una determinata regione può essere stata influenzata da una miriade di fattori concorrenti, come le influenze esterne, le invasioni e le dominazioni da parte di civiltà straniere, la collocazione geografica più o meno privilegiata di alcuni territori. Tutto questo ha, nel bene e nel male, un influsso non trascurabile ancora oggi sulla lingua italiana parlata nelle diverse regioni d’Italia. Viviamo nell’epoca della globalizzazione, della comunicazione, dei mezzi di informazione di massa. Eppure permangono, in alcuni casi ancora molto forti e ben radicate nel territorio, le caratteristiche peculiari dell’una o dell’altra pronuncia “regionale”. E poi, siamo sicuri che la televisione, la radio, i mezzi di informazione, favoriscano la diffusione dell’italiano “corretto”? Abbiamo innanzitutto visto come questa entità “l’italiano standard”, sia un entità non ben definita, dai confini non chiaramente delineati, e sicuramente più un entità “teorica” che pratica nella nostra nazione. Abbiamo visto come i mezzi di comunicazione nazionale forse non svolgano un ruolo “super partes” nel favorire una pronuncia corretta, ma come invece spesso tendano inevitabilmente al contribuire al prestigio ed alla diffusione di una determinata varietà d’italiano, sia essa quella fiorentina, quella romana, quella settentrionale. Certo, varietà prestigiose, più largamente diffuse. Ma pur sempre varietà regionali, non “italiano standard”. Singolarmente poi, quando nel campo della televisione e della radio si scende dal livello nazionale a quello locale, appare evidente come le emittenti locali contribuiscano anche loro, volontariamente o involontariamente, a diffondere ed a fare accrescere il prestigio delle varietà regionali, vista la pronuncia generalmente fortemente regionalizzata dei conduttori, presentatori ed ospiti di queste emittenti. Quindi le emittenti a diffusione locale in un certo senso svolgono la funzione opposta rispetto a quella della televisione nazionale. Mentre quest’ultima infatti svolge una certa funzione di standardizzazione linguistica, anche se solo a favore di alcune varietà di italiano regionale più “prestigiose” o più “fortunate” rispetto alle altre, le emittenti locali piuttosto veicolano le varietà regionali dell’italiano, conferendo ad esse prestigio. Come porsi dunque di fronte a questo fenomeno? Le varietà regionali sono un qualcosa da etichettare come “variante negativa” dell’italiano, e quindi da condannare? Bisogna “abdicare” verso le 2-3 varianti più prestigiose, mettendo da parte tutte le altre? La persona che parla un italiano fortemente regionalizzato, è da considerare “ignorante”?

Bisogna innanzitutto fare alcune considerazioni. Non si può non notare che tra la gente comune ci siano pronunce e regionalismi che sono più o meno tollerati, a seconda della loro natura, della loro entità, della loro provenienza. Spesso infatti la “coloritura regionale” del fiorentino che parla italiano, viene accolta con “simpatia”, e non etichettata come fenomeno negativo. Allo stesso modo, in genere pronunce come quelle indotte dalla varietà settentrionale (in particolare quella milanese) o dalla varietà “Rai”, sono generalmente ben tollerate. Alcune pronunce sono invece sicuramente “ghettizzate”. Mi riferisco ad esempio alla pronuncia marchigiana e alla pronuncia ciociara, spesso utilizzate in televisione come “caricatura” del “burino”, il “campagnolo”, l’ignorante per antonomasia, e in generale alla pronuncia meridionale. Ad esempio il fenomeno di sonorizzazione  delle consonanti occlusive sorde dopo nasale, che è in genere molto evidente per la sostituzione della “d” in luogo della “t” (sciendifico scientifico) viene spesso etichettato sbrigativamente come sinonimo di ignoranza e di scarsa cultura. E si che abbiamo avuto in passato, e abbiamo tuttora nella nostra società esponenti illustri di questo tipo di pronuncia regionalizzata che sicuramente non possono essere tacciati di ignoranza o di bassa cultura, come l’ex democristiano Ciriaco De Mita, originario dell’Irpinia o il governatore della Banca D’Italia Antonio Fazio, originario della Ciociaria. Esistono dunque degli elementi di “razzismo” linguistico nel non giudicare ogni italiano regionale dotato di propria dignità? Probabilmente si. E la conferma sono pubblicazioni come quelle della Nora Galli De’ Paratesi, che arrivava con una certa tranquillità a giudicare il razzismo linguistico come un fatto “naturale ed inevitabile”, trattandosi della normale conseguenza di uno sviluppo non bilanciato tra nord e sud del paese.

Certamente va considerato che il fenomeno di italianizzazione dell’Italia è stato “un movimento diatopico , dalla Toscana alle altre regioni, dai centri alle periferie” (SORELLA 2001: p. 48) In questo senso è facile essere indotti a giudicare le cose in questa prospettiva, ed a considerare quindi “inferiori” da un punto di vista culturale e linguistico le zone che si trovano alla periferia del fenomeno come il mezzogiorno d’Italia. Va ricordato però, che dove questa ”onda” di toscanizzazione è arrivata, non vi era il vuoto. Essa si è scontrata con tradizioni, con altre koine dialettali, con altri sistemi linguistici, non necessariamente inferiori o meno sviluppati. Il processo di “fusione” con essi è stato in qualche modo inevitabile, e forse proprio in questo aspetto è da ricercare il motivo della tale diversità e del campionario di pronunce di cui dispone oggi l’Italia all’interno delle sue regioni. Il fatto che ci siano pronunce regionali oggettivamente “avvantaggiate” come quella romana o quella milanese dall’avere a disposizione un importantissimo mezzo di diffusione come gli studi radiotelevisi, non dovrebbe renderle solo per questo motivo più prestigiose o comunque più “corrette” di altri. Oggi siamo abituati a considerare pronunce corrette quelle che invece magari sono dei veri e propri regionalismi. Il punto è che essi ci giungono da una fonte “ufficiale” ed “autorevole” come quella della televisione, e quindi tendiamo a prenderli per buoni. E ancora, a volte capita che alcune pronunce possano essere considerate accettabili se utilizzate da un settentrionale, meno accettabili se utilizzate da un meridionale.  Sicuramente questo è un fenomeno non positivo, o che quanto meno non può non destare una certa perplessità. Viene da chiedersi come mai “i giornalisti televisivi di origine meridionale possiedono tutti una pronuncia non chiaramente regionale, mentre è consentito ad altri giornalisti settentrionali di conservare tratti fonetici molto marcati” (SORELLA 2001: p. 50) Come già detto prima, forse non è esagerato ravvisare in simili atteggiamenti tratti di una sorta di “razzismo linguistico”.

Tutto questo significa allora che dobbiamo accettare i regionalismi di ogni tipo come “fisiologici” e rinunciare ad imporre una pronuncia standard dell’italiano? Personalmente non credo. Certo è però che se anche un ente di cruciale importanza per la diffusione della lingua parlata come la RAI ha rinunciato ad imporre una pronuncia standard ai propri dipendenti, sicuramente bisogna prenderne atto che evidentemente vi è una certa difficoltà oggettiva nell’imporre e nel ricercare una pronuncia “standard”. È evidente che la “lotta” ai regionalismi è molto più complicata di quanto possa semplicisticamente sembrare ad un primo approccio superficiale. L’importante è che comunque non avvengano in questo senso discriminazioni verso l’una o l’altra varietà regionale, in favore di altre varietà, comunque pur sempre regionali e non standard, che hanno però la fortuna di essere utilizzate nei luoghi che sono centri nevralgici per la diffusione della lingua parlata. L’aspirazione a liberare la propria pronuncia dell’italiano da un eccessivo regionalismo è sicuramente legittima. Il desiderio di arrivare ad una pronuncia completamente staccata da qualsiasi tipo di regionalismo e assolutamente standard è probabilmente utopistico. Ma anche se è vero da una parte che una la pronuncia “Rai” può essere in parte considerata, come ricordato nel capitolo relativo al Lazio, una “pronuncia fiorentina deregionalizzata”,  e quindi un’immagine linguistica abbastanza ben tollerata anche dai più campanilisti, non si può negare che oggi la pronuncia settentrionale, soprattutto nell’ambito delle trasmissioni radio-televisive, pare tornare alla ribalta e pare affermare sempre più il proprio prestigio rispetto ad altre pronunce. Questo fenomeno forse rischia di rendere in parte vani gli sforzi effettuati per abbandonare la propria pronuncia “regionale”, visto che si va poi ad approdare verso un'altra pronuncia ugualmente di tipo “regionale”, anche se erroneamente identificata come standard.


 

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SINISCALCHI 1902 – Siniscalchi M., “Idiotismi. Voci e costrutti errati di uso più comune nel Mezzogiorno d’Italia con un'appendice ortografica”, Trani, Vecchi, 3° edizione, 1902

 

SORELLA 1997 - Antonio Sorella, “Manualetto di Dizione per centro-meridionali”, Libreria dell’università editrice, Pescara 1997

 

SORELLA 2001 – Antonio Sorella, “Manualetto di dizione – proposte per un’educazione linguistica nell’Italia che si riscopre razzista”, Libreria dell’università editrice, Pescara 2001

 

TELMON 1989 – Tullio Telmon, “Metodi e teorie nello studio degli italiani regionali, in “Quaderni dell’Istituto di Glottologia della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università ‘G.D’annunziò di Chieti”, I, pp. 93-111.

 

TRIFONE 1994 - Pietro Trifone in “Uno spunto foscoliano: la lingua itineraria”, in AA.VV., “Chi l’avrebbe detto. Arte, poesia e letteratura per Alfredo Giuliano”, a cura di Corrado Bologna, Paola Montefoschi e Massimo Vetta, Milano, Feltrinelli

 

TRIFONE 1990 – Pietro Trifone, “Italiano in Abruzzo dopo l’unità: gli esercizi di lingua di Checchina”, in “Scritti Offerti a R. Laporta”, Chieti, Vecchio Faggio, pp.497-510

 

TRIFONE 1992 – Pietro Trifone, “Roma e il Lazio”, Torino, Utet Libreria.

 

TRIFONE 1996: Pietro Trifone, “Roma e il Lazio” in “L’Italiano nelle regioni”, AA.VV., p.56-132, Garzanti, Milano, 1996

 

VIGNUZZI 1981: Ugo Vignuzzi, “Dialetti”, in “Lazio” 1981:63-7

 

VIGNUZZI 1988: Ugo Vignuzzi, “Marche, Umbria, Lazio” in LRL:606-42, Vigo, G.


VIGNUZZI 1996 – Ugo Vignuzzi, “Gli Abruzzi ed il Molise”, in “Storia della lingua italiana diretta da Francesco Bruni – L’italiano nelle Regioni”, Vol II, Torino, Garzanti



[1] cfr. Antonio Sorella, “Manualetto di Dizione per centro-meridionali”, Libreria dell’università editrice, Pescara 1997, pp.34-36

[2] Autore del notissimo saggio del cinquecento “Galateo ovvero de’ costumi”

[3] cfr. anche Antonio Sorella, “Manualetto di dizione. Proposte per un’educazione linguistica nell’Italia che si riscopre razzista”, Libreria dell’Università Editrice, Pescara 2001, p. 45

[4] nella lingua degli studiosi, le "specie" di lingua classificate come “regionali”, cioè individuate sulla base di caratteri che dipendono dall'area da cui proviene o in cui opera il loro parlante sono dette diatopiche; Le varietà collegate a situazioni più o meno formali vengono dette diafasiche; Le varietà connesse alla maggiore e minore cultura, all'occupazione, ed in parte al censo del parlante/scrivente vengono definite diastratiche; infine le varietà legate alle specifiche modalità della comunicazione, che può avvenire oralmente o per iscritto, vengono definite diamesiche.

[5] Cfr. Nora Galli De’ Paratesi, “Opinioni linguistiche e prestigio delle principali varietà regionali di italiano”, in AA.VV. “Italiano d’oggi. Lingua nazionale e varietà regionali”, Trieste, edizioni Lint, 1977,  pp. 143-197

 

[6] Giovan Battista Pellegrini, “Tra lingua e dialetto” 1960, in «Studi mediolatini e volgari»,  p. 148

[7] Giovan Battista Pellegrini, “L’Italiano regionale” in: Cultura e Scuola n.5 (set.-nov. 1962),

[8] “Touring Club Italiano” 1979

[9] cfr. Giammarco 1979, pp.75-117

[10] cfr. M.C. Figliozzi, “Nota sulla situazione sociolinguistica della Ciociaria: un’indagine su Alatri” in “La Ricerca Dialettale”, 3, AA.VV., pp. 153-179, 1981

[11] cfr. Tullio De Mauro, “Per lo studio dell’italiano popolare unitario. Nota Linguistica” in  A. Rossi – “Lettere da una tarantata”, De Donato, Bari, 1970